Alcide Pierantozzi, Arcito per gli amatissimi nonni abruzzesi, ha trent’anni e vive a Milano. Fu caso editoriale nel 2006 il suo libro di esordio Uno in diviso (Hacca), sono seguiti nel 2008 L’uomo e il suo amore e nel 2012 Ivan il terribile, entrambi per Rizzoli.
Scrive per imparare a morire. Tra le cose che ama di più ci sono leggere in riva al mare fino al tramonto, andare al cinema con la madre, bere Negroni e acqua di cocco all’ananas, guardare film horror di notte, accendere candele in camera per i nonni.
Il suo ultimo sforzo narrativo è Tutte le strade portano a noi, pubblicato da Laterza nei mesi scorsi. Lo abbiamo letto (qui la recensione) e ci è venuta voglia di intervistare l’autore.
Alcìde o Arcito? Come tAlci fai chiamare adesso, di ritorno dalla lunga passeggiata per l’Italia? (per i lettori: Arcito era il nome con cui la nonna Nadina chiamava Alcìde Pierantozzi).
Molti, scrivendomi su Facebook, attaccano così: “Ciao Arcito”. È una cosa che mi piace molto, e per due ragioni. La prima perché mi fa pensare a mia nonna (e i nonni – anzi, le persone anziane in generale – sono quanto di più poetico e essenziale esista al mondo), la seconda perché il mio nome negli anni ha subìto tante di quelle modifiche, tanti di quegli storpiamenti, che per una volta ho voluto storpiarmelo da solo. A scuola durante l’appello ero Alice Pierantozzi, per i milanesi sono Àlcide con l’accento sulla a. Poi c’è chi passa in rassegna i vari Alcibiade, Alceo, Alvise… Nonna mi chiamava Arcito, o Arcite se il tentativo era quello di pronunciarlo bene. Che poi uno a un certo punto si chiede: ma se i miei nonni, gli stessi che il nome me l’hanno dato, lo pronunciano così, allora perché gli altri dovrebbero pronunciarlo diversamente?
Alcide Pierantozzi è nato nel 1985, è abruzzese e vive a Milano, ha studiato filosofia, ha pubblicato il suo primo libro a vent’anni. Che cosa aggiungeresti a questa stringata biografia?
Non so, forse quello che amo. Così, disordinatamente: bere litri di acqua di cocco all’ananas, mangiare barattoloni interi di gelato Häagen-Dazs gusto cookies o gusto banana guardando le serie tv, cucinare piatti con la curcuma, leggere in riva al mare dalle due del pomeriggio al tramonto ininterrottamente, andare al cinema con mia madre nei multiplex dei centri commerciali, leggere riviste di cinema come Ciak e FilmTv, guardare film horror di notte, passare ore al bar Picchio con i miei amici, passare ore nella vasca da bagno a leggere dei thrilleroni di cui non dirò mai il titolo, fare frullati alla fragola e frutti di bosco, bere Negroni quando non scrivo, ascoltare i Cure e i Cocteau Twins, fumare canne, accendere candele in camera per i miei nonni, la notte, rischiando che prenda fuoco la casa.
Su Via dei Serpenti abbiamo inaugurato recentemente la nuova rubrica “Perché scrivo?” dedicata ai perché della scrittura. Ti sei posto coscientemente questa domanda? Hai trovato qualche risposta?
La risposta è la stessa che darei alla domanda “perché leggo?”. Per imparare a morire.
Alcide Pierantozzi, Elena Dal Molin e Andrea De Spirt a Siena
Il viaggio di cui ci parli in Tutte le strade portano a noi è durato un mese (da maggio a giugno 2014). Invece quanto sono durate la gestazione dell’idea e la preparazione per trasformarla in azione? E che cosa è arrivata prima, l’idea di scrivere un libro o quella di percorrere a piedi l’Italia?
Il libro viene dopo. Nel senso che con l’editor di Laterza e il mio agente stavamo pensando a una sorta di reportage divertente, che raccontasse anche le radici abruzzesi. Allora ho proposto di fare a piedi l’Abruzzo, poi ho pensato che avrei potuto fare a piedi l’Italia intera e ho proposto l’idea. Hanno accettato, e a quel punto ero fregato.
I tuoi compagni di viaggio sono co-protagonisti di una narrazione rocambolesca e spesso impietosa, la loro selezione appare un po’ casuale, a volte anche incomprensibile. In questo viaggio, in realtà, di casualità sembra essercene molto meno di quella che vuoi farci credere. Mi sbaglio? E perché non hai deciso di partire da solo?
Non c’è stato niente di casuale nella loro scelta, hai ragione. Se uno di loro, uno soltanto, non ci fosse stato, il libro sarebbe stato monco. Di questo sono pienamente convinto. Da solo? Sarei impazzito dopo cinque chilometri. Io non riesco a stare nemmeno una serata da solo, figuriamoci…
Chi ha letto Tutte le strade portano a noi non dovrebbe avere dubbi su quello che hai trovato durante e alla fine del viaggio, puoi comunque spiegarlo di nuovo? Gli altri compagni di strada, invece, che cosa hanno trovato?
Io, procedendo in avanti nel cammino, sono tornato indietro. Ho camminato sempre pensando ai miei nonni, alla loro vita, al fatto che io debba ogni cosa ai loro sacrifici fatti nelle campagne in Abruzzo, dove hanno lavorato tutti i giorni, sotto la pioggia e sotto il sole, per più di ottant’anni. Non basterebbe raggiungere a piedi i Poli, per ricompensarli.
Vorrei soffermarmi in particolare su Romina Rizzuto, sorta di «sherpa» contemporaneo che vi ha seguiti in automobile trasportando i bagagli. È un personaggio dai netti contrasti, una ragazza di una «bellezza che arresta il tempo» ma dal linguaggio direi cabarettistico, tanto esilarante quanto improbabile. Romina esiste veramente o è uno dei tanti frutti del tuo istinto creativo?
Esiste veramente. Tutto quello che racconto nel libro è vero. Romina è un miracolo, se l’avesse vista Fellini l’avrebbe scritturata immediatamente. È una persona speciale, senza la quale il viaggio non avrebbe avuto lo stesso significato.
Dopo mille chilometri a piedi e di vita promiscua possono andare irrimediabilmente perduti rapporti di amicizia e di amore, oppure nascere legami indissolubili. Che cosa è accaduto a voi?
Ci siamo legati parecchio. All’inizio, subito dopo il viaggio, non ne potevamo più l’uno dell’altro e per due mesi non ci siamo più sentiti. Da settembre siamo tornati quelli di prima. Brando De Sica, che ho conosciuto durante il viaggio, è diventato una delle persone più importanti della mia vita, Martina Codecasa la sento praticamente ogni giorno e a Roma spesso sono ospite da lei a Pigneto, Monica Stambrini lo stesso, a Roma ci vediamo sempre. Mi manca molto Romina, che sento spesso ma è una di quelle persone con cui vorresti stare insieme dalla mattina alla sera. Non vedo l’ora di organizzare un nuovo grande progetto per farla tornare a collaborare con me. Quanto ad Andrea e a Elena, eravamo già molto amici prima di partire.
Dal tuo primo romanzo Uno in diviso, caso letterario del 2006, a Tutte le strade portano a noi, di «strade» ne hai già attraversate molte. A che punto sei del percorso?
Be’, spero all’inizio. Ho la fortuna di aver cominciato presto, a diciannove anni, adesso che ne ho trenta ho un decennio di esperienza alle spalle in cui ne ho viste e sentite di tutti i colori. Credo che sia arrivato il momento di cominciare a scrivere sul serio.
Non posso essere d’accordo, pur essendone onorato, per il semplice fatto che a diciannove anni non avevo letto la Kristof. Così come non avevo letto l’Amras di Thomas Bernhard, al quale accostavano il mio libro, o Emmanuel Carnevali. A dire la verità, a diciannove anni non sapevo nemmeno cosa fosse una casa editrice. Li ho letti dopo, mi hanno incantato. Però non scherziamo… Accostare il mio libro alla Kristof o a Bernhard è tanto, tanto esagerato.
Di “venerati maestri” parla l’ultimo numero della rivista Orlando Esplorazioni dedicato a un sondaggio per scoprire chi tra gli scrittori 50-60enni di oggi comparirà nei manuali di letteratura dei nostri figli. A rispondere sono stati lettori e critici tra i 20 e i 40 anni. Tu che cosa risponderesti?
Alcuni, sì: Marcello Fois, Rosa Matteucci, Michele Mari, Edgardo Franzosini, Domenico Starnone, Licia Giaquinto, la poetessa Patrizia Cavalli. Ognuno di loro ha scritto almeno un libro fondamentale.
Sul fenomeno del self-publishing, che ha assunto dimensioni impressionanti, mi sembra tu abbia idee in controtendenza. Vuoi parlarcene un po’?
Mah… forse erano di controtendenza un paio d’anni fa, quando scrissi l’articolo su Affaritaliani che affrontava questi temi. La mia opinione è molto semplice: è possibile che un autore che si è stampato un libro da solo sia più bravo, decisamente più bravo, di chi pubblica – e mi ci metto io per primo – con una grande casa editrice. Il sistema editoriale è costretto a seguire regole di mercato ben precise che presuppongono la forza mediatica dello scrittore, la facilità del libro, la sua rassegna stampa, la sua biografia, le copie vendute. Naturalmente non vale per tutti gli editori. È anche giusto che sia così, cioè che i libri pubblicati arrivano al maggior numero di persone; ma occhio a non confondere tutto questo con la qualità letteraria. D’altronde è una cosa che sanno bene anche gli editor: non tutto ciò che è bello, o importante, può essere pubblicato. È un peccato, spesso è un vero dolore, ma non c’è alternativa.
Immancabile la domanda sui tuoi prossimi “passi”, sul tuo prossimo viaggio, non soltanto metaforico. Più banalmente, qual è il tuo nuovo progetto?
Ho tanti progetti in cantiere. Sto pensando a un paio di saggi da scrivere insieme a Luca Scarlini, e sto ultimando un libro su Chernobyl cui lavoro ormai da sei anni. Nel frattempo penso anche al nuovo romanzo. Il lavoro di sceneggiatore mi sta portando via molto tempo, ma mi sta anche facendo crescere. Ho ricominciato a chiedermi: cosa voglio che veda il lettore? Dopo Uno in diviso, per anni, mi sono chiesto: cosa voglio che legga il lettore? Sto anche pensando a una trasmissione televisiva che mi hanno proposto, un programma di cultura ma very strange. Fosse per me farei tutto, anche lo stuntman a Cinecittà.
Per concludere, che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
I piccoli dispiaceri di Miriam Towes e Il cervello di Alberto Sordi di Tatti Sanguineti. Poi tantissime poesie di Patrizia Cavalli, che adoro. Ma io non ce l’ho un comodino, i miei libri sono tutti appoggiati per terra. Diciamo che a casa mia più o meno tutto è appoggiato per terra: dvd, dischi, bottiglie d’acqua, statue… L’unico a non avere i piedi per terra sono io.