Alcuni dubbi sul queer

Da Anacronista
Intorno alla normatività del legame tra precarietà economica e precarietà relazionale.
[Aggiunto: Questo post è  non esaustivo, non lineare, senza pretese e in fieri perché frutto di poche fonti "movimentiste". Si tratta di semplici appunti su un argomento che mi accingo a scoprire e che intendo in futuro approfondire in modo più serio e articolato]. Allo Sfamily Day, si paventava – in modo piuttosto accennato e sfuggente – la possibilità di un legame tra la precarietà del lavoro e quella delle relazioni. Ho letto e seguo con interesse l’approccio queer non solo alla sessualità ma anche all’esistenza in generale. Il “modello” queer, che per quanto rifiuti la definizione di modello lo è in qualche modo anch’esso, prende - fra l'altro - atto della precarietà strutturale di tutte le relazioni. Quello che mi chiedo è se tale legame vada inteso in senso normativo, o si tratti semplicemente di una constatazione. A primo impatto, sembra che prevalga la prima ipotesi. Di fatto, queer o non queer, il legame c'è. Non ricordo più dove ho letto un articolo che sottolineava l’impossibilità, per esempio, di fare ricerca al contempo mantenendo una vita di coppia stabile. Le condizioni precarie del lavoro, la continua necessità di spostarsi, – che in questo caso è quello di ricerca, ma potrebbe adattarsi a qualunque altro ambito – mettono in crisi il modello tradizionale di relazione amorosa. [Comunque, penso che presto scriverò qualcosa su un libro di Richard Sennett che ragiona molto anche su questo, sia pure non da una prospettiva queer, poiché è senz'altro molto interessante e decisamente se ne parla troppo poco. Mi riferisco a L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli 2009].
Bene, ne prendiamo atto. Dal constatarlo al trasformarlo in modello normativo, però, il passaggio non è pacifico.
Mi sfugge cioè il perché sarebbe necessario far coincidere la vita relazionale  col modello economico dominante. Di fatto, la precarietà è grande sfaldatrice di relazioni. Ma di diritto? Perché dovremmo prendere quel modello a esempio emotivo, sessuale, eccetera? Semmai, argomentiamolo in altri modi. Non escludo che questo legame normativo fosse uno scivolone momentaneo: mi sembra troppo assurdo che si prenda a modello della vita relazionale il nuovo capitalismo.
Mi ha colpito in particolare, nel leggere il manifesto queer recentemente tradotto in italiano [cfr. link sotto], che il queer è “contro il trauma del divorzio”. Come nascono, le relazioni finiscono, e non bisogna farne un dramma, cambiando appunto a monte modello emotivo-relazionale. Il presupposto implicito sembra essere che se di solito si soffre per la rottura di alcuni legami, non è perché ciò faccia in quanto tale soffrire, ma perché la sofferenza deriva dall’interiorizzazione del modello tradizionale di relazione, quello cioè per cui – per esempio – la fine di un matrimonio è un lutto, un trauma e via dicendo. In sé non farebbe soffrire, è il modello sociale di riferimento la vera causa di questa sofferenza.
 Ora, di fronte a quel poco che ne so, vorrei porre due punti di vista:
-   bene tentare di liberarsi di tutti quegli schemi relazionali opprimenti; dalla normatività dei modelli; dalla conseguente inautenticità di molti comportamenti e di molte scelte; dal concetto di possesso, di “per tutta la vita”, di esposizione al dramma che ogni relazione forte sembrava recare in dote di per sé, ecc;
-   domanda: non è che per caso, così dicendo, si vuole negare la realtà spesso dolorosa delle relazioni? Il fatto, cioè, che ogni legame affettivo forte ha un contenuto di angoscia, un nocciolo distruttivo e/o prensile, il desiderio di afferrare infinitamente l’altro sempre impossibile da soddisfare, e quindi un minimo di frustrazione profonda e un’inappagabilità strutturale? La paura dell’abbandono, l’attaccamento eccetera? O anche questa è una costruzione sociale deformante e oppressiva?
Ergo: che succede quando una "persona queer" si innamora? Ogni relazione profonda – diciamo così, amorosa – è in sé estremamente ambivalente, sicché accanto alla felicità convive un senso profondo di angoscia, per i più svariati motivi. Anche perché si cerca nell’altro quel qualcosa che colmi un vuoto interiore, e la libertà dell’altro coincide immediatamente con la possibilità, sempre presente, che esso ci abbandoni da un momento all’altro. Accanto allo stare insieme persiste sempre un più o meno vago senso di paura. Tutto ciò è ascrivibile semplicemente alla sezione "oppressività interiorizzata della monogamia", o è qualcosa di più intrinseco? Boh, pongo domande.
Natruralmente, parlo di sentimenti, non solo di sessualità. Da quel che ho visto, il punto di vista queer non restituisce se non molto vagamente la sfera dei sentimenti. Sembra cioè troppo "autocentrato", poco orientato a ragionare sulla dimensione affettiva della relazione e su tutto il corredo di dolore che, romantica o non romantica, la relazione amorosa sembra come tale recare in dote.
Poi, quanto all'identità di genere, il considerarla esclusivamente come frutto di una pratica discorsiva sociale può essere problematico: è indubbio che c'è un'imponente dose di normatività nella costruzione del genere, ma parimenti penso che ci sia un limite. Come ha detto Luce Irigaray [PS: NON 'ADERISCO' AL PENSIERO DELLA DIFFERENZA, nda], "non godiamo di una libertà infinita". C'è un limite. E non è detto che questo limite sia di per sé oppressivo. Anzi, il pensiero di essere tutto e niente può generare angoscia. L'identità è una cosa preziosa - siamo esseri situati o esseri astratti? penso la prima -, perché dovrei togliermela? [Al proposito, cfr. link sotto]. E' sede di oppressioni e costruzioni culturali, ma può anche essere sede del punto X (o G, come preferite) a partire dal quale essere e agire consapevolmente, direzione libertà, una volta che si sono riconosciuti e per quanto possibile problematizzati e decostruiti i livelli di normatività che esso contiene.
Insomma, pur riconoscendo molti aspetti positivi al punto di vista queer, come movimento "negativo", di decostruzione delle norme, di liberazione dai modelli istituzionalizzati di relazione-genere&sessualità, penso al contempo  - come si è convenuto con Eleonora - che nel rifiutare ogni norma come intrinsecamente lesiva della libertà si ponga esso stesso come norma potenzialmente non meno oppressiva e che inoltre si scontri con il problema principale del decostruzionismo che è appunto quello del limite. 
Avere una vagina e avere un pene, essere omosessuali, transessuali, bisessuali o etero è per il queer completamente indifferente? Mi si risponderà: puoi essere in certi momenti etero, in altri omo, eccetera. Si tratta di esplorare tutte le infinite sfaccettature del proprio potenziale sessuale, della propria sconfinata identità. Il che è molto interessante. Ma, ripeto: il limite? i sentimenti? il dolore? l'identità? tutte finzioni?
Si diceva da qualche parte, per esempio, che il coming out fosse un'esperienza derivata da una sorta di violenza epistemico-sociale, per cui definendosi come X si viene ingabbiati per sempre in X. Questo è un punto importante e condivido l'analisi sul coming out, ammenoché non sia frutto di una scelta di lotta politica ben definita (per cui definendomi lesbica in modo plateale irrompo nei codici usuali, eteronormati, e pongo il problema). Il coming out presuppone, cioè:
- da un lato, che l'essere diversi dalla massa etero, comporti di necessità il proprio rimarcarlo, e che quindi non affermando nulla si sarebbe per "tacito accordo" etero;
- dall'altro, un'irruzione nell'intimità della persona che, come insegna Foucault, è profondamente asimmetrica, perché questa società che ti entra nelle mutande non è prevista allo stesso modo per le persone etero.
In questo senso la prospettiva queer potrebbe fra l'altro dare degli embrionali strumenti per liberarsi da quello che in parte presiede al coming out, cioè il presupposto della fissazione in un modello sessuale/identitario/sociale immutabile.
Tuttavia, per tornare all'inizio del post, vorrei vederci semmai un minimo di critica del modello sfiancante e alienante di vita proposto dal nuovo capitalismo, e non un’imitazione dei suoi modelli trasposti nell’ambito esistenziale, emotivo e relazionale. Questo non vuol dire affatto che l’istituzione relazionale familiare classica vada preservata in quanto tale o che. Vuol dire che è necessario capire i termini con cui giustifichiamo tutto ciò e fare i conti con la dimensione affettiva, con il bisogno di stabilità emotiva, con il problema "dolore" spesso intrinseco a quello dei "sentimenti". 
Leggendo qualcosa sul queer ho sempre cioè avuto un'impressione di grande anaffettività. Ok, se vale soltanto per il sesso libero ok. Ma quando lo trasferiamo a una dimensione più articolata di relazione mancano punti di riferimento, mancano griglie di lettura. Che non escludo possano esserci, al momento mi limito a ragionare su quel - poco, riconosco - che ho letto e sentito sul tema.  
Se volessimo polarizzare i modelli, da un lato quindi abbiamo il modello patriarcale, oppressivo e odioso, dall'altro il modello-non-modello queer. Il primo non mi riconosce come soggetto, o meglio mi riconosce solo previa accettazione di tutte le sue categorie normative (il che equivale a non riconoscermi). Il secondo mi riconosce come fantasma, asessuato o ipersessuale, potenzialmente tutto e niente, che in modo ostentatamente glaciale liberamente sceglie e rompe legami come fossero bruscolini. Visto così, il queer sembra davvero l'irruzione del postmoderno nelle mutande. Tutto è sfaldato, tutto è decostruibile, tutto è mistificazione, quindi dobbiamo vivere in una zona franca di decostruzione - esiste? può esistere? - coincidente con la libertà (davvero?).
Ora, queer è buono nella sua istanza di allargamento delle maglie della libertà. Per una sessualità meno socialmente rigida. Per decostruire il modello, fallito, di "amore romantico" o il diktat sociale della "coppietta" e tutto il suo corredo. Per inoculare in modo più radicale il germe del dubbio sul carattere "naturale" dei generi. D'altro canto, "non abbiamo una libertà infinita" e non è detto che una libertà infinita sia una cosa buona e meno oppressiva della libertà zero.
Qui è possibile leggere il manifesto queer, molto suggestivo e interessante, fermi restando i dubbi che ho espresso e sono aperta a sciogliere una volta che ne avrò gli elementi. Qui invece una critica che a primo impatto sembra abbastanza sensata.

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