Stando al titolo (Alda Merini, Fiore di poesia, a c. di Maria Corti, Einaudi, Torino 1998), il libro sarebbe un’antologia. Ma così com’è composto intelligentemente dalla Corti, offre gli elementi utili per un consuntivo pressoché completo. Si tratterebbe dunque di una crestomazia, che non ingloba ogni silloge pubblicata, ma solo (parti di) quelle ritenute rappresentative, con in più componimenti apparsi fuori di silloge, come Il gobbo e Luce, tratti da Poetesse del Novecento del ‘51 (Luce rientrerà due anni dopo in Presenza d’Orfeo).
D’altronde, questo recupero stilnovistico si avverte anche in componimenti anteriori, del ‘47, come La vergine, il primo riportato de La presenza d’Orfeo, e sarebbe il segno di un apprendistato ovvio in una sedicenne, se la poesia non si avvertisse già ancorata a terreni sensi, restati fuori dal magistero estetico (aijvsqhsiÇ) operato dall’ermetismo: come se un sentire poetico preraffaellita, rimasto indenne dal preziosismo dannunziano, avesse traforato tutte le scuole e fosse approdato oltre la guerra in tutta la sua innocente leggerezza. Una poesia, dunque, radicata esclusivamente nel vissuto (Lettere), fuori da ogni febbre sperimentale, tanto che subito si affida a ritmi tradizionali, perché la novità è tutta e solo nelle immagini, prodotte dal personale sentire.
A volte (Colori), un empito vitale primitivo e impredicabile pare esaurire la personalità della Merini, in progressione verso una dilatazione cosmica dell’essere, che comporta la consunzione totale della parte corporea, sentita come un limite nella sua greve terrestrità. È questo il punto origine di una poesia autenticamente al femminile, che svela davvero il modo di porsi della donna
Di questo passo, era prevedibile l’approdo religioso, di cui poeticamente son concrezione le raccolte Paura di Dio, Nozze romane, ambedue del ‘55, e Tu sei Pietro (1961). Una carità oltranzista anima la prima raccolta, in virtù della quale eletti e peccatori abitano i due volti di Dio (Chi sei), da cui in amoroso moto eruttivo rampollano nascita e morte. Così lei stessa, già in discesa verso la follia, dice che nacque “dalle trame del buio per allacciarmi ad ogni confusione” (Il testamento).
Di qui la persuasione della negatività dell’umano (Solo una mano d’angelo), resa in un It che è un calmo ragionare lievitato appena da iterazioni, cui corrisponde una Op di sovrumana calma, che sembra un’apertura all’infinito. Così nasce il divino dall’umano: una luce albale ritmicamente, selvaggiamente avvertita, pone l’essere al di là del male e del dolore (Maria Egiziaca), ed apre ad una serenità sufficiente a scorgere il piano provvidenziale di Dio, limpidamente, come raccogliendolo da acque chiare. E nell’infinità di Dio si risolve ogni miseria umana (Queste folli pupille), perché egli è il puro essere, e andare a lui è andare alla purezza essenziale. Gli si addice un immobile silenzio, in cui la chiassosità umana è una lontana eco che si perde, con tutto il dolore e tutto il male o l’illusorio bene che provoca il dolore. Sotto la fermezza di voce si avverte un tremore (Da questi occhi), una paura, non tanto di Dio, ma di non poterlo raggiungere.
In Nozze romane, questa paura diventa dell’uomo, il profanatore del tempio, colui che avanza come un nemico guastatore inesorabile, indifferente al dolore di lei. Dinanzi a lui la poesia isterilisce in discorso referenziale, o da It metaforici si genera una Op che apre una visione di lei come cosa interrata e tratta fuori a forza con suo gran disagio e sofferenza, come albero sradicato, fiume dimidiato, immagini che s’innalzano a simboli della femminilità oppressa. Di qui un travaglio di esistere districandosi via via da un
Ma più che l’insidia è un vivere per la morte, che può disvelarsi variamente, e fin nel momento intuitivo che genera la poesia: ogni volta vi si cala sopra un’ombra di morte a dissolverne la forma appena vi si atteggia (La Sibilla Cumana), sempre daccapo costringendola a riatteggiarsi, di modo che ogni forma vive per morire. In Giovanni maturò l’Apocalisse prima ancora dell’ascolto, in una tensione che si sciolse in una scrittura tagliente che fendé il velame della materia ed aprì uno spiraglio sulla morte (Giovanni Evangelista). Insomma, l’esistenza-divenire tocca il punto più alto attraverso l’esperienza della morte, quando è assunta come impegno (Cristo portacroce), come lotta “per sradicare l’ora dal… cuore, / sola entità di tenebre”. L’esistenza jaspersiana come esserci storico o come consapevole occupazione della temporalità, qui è intesa come un limite: l’esistenza meriniana è configurata come attivo divenire, il quale consiste in uno sforzo consapevole e costante di liberarsi dal tempo, dall’ora, che ci oscura nella terrestrità, in definitiva si tratta della heideggeriana conquista della “libertà per la morte”. Di ciò è una potente imago Il fanciullo (statua sepolcrale), che si sente “nel tempo svincolare / gradatamente da residui bui”.
In Tu sei Pietro è adombrata la differenza tra umano (Pietro) e divino (Signore). Il primo può sorreggere il corpo, l’altro infonde la forza d’animo per un riscatto. Si noti, in Missione di Pietro, la felicissima accentuazione dell’umano nell’uomo-dio: “Quando il Signore, desolato e grigio,/ ombra della Sua ombra incespicava/ dentro il suo verbo colmo d’incertezza.”
Ecco dunque comparire l’imago dell’immersione nel sangue, che è immersione nel dolore (Sogno, È più facile ancora), in cui si purificano le cose “nate dal pensiero”, le cose nella cui “mordente nostalgia” il tempo ci oscura. E questa imago fa ricomparire qui, nella zona religiosa, la poesia al femminile (Rinnovato ho per te), confermandone la disposizione sacrificale già vista, purché attivata dall’uomo. A tal proposito viene operato un rovesciamento della stilnovistica donna-angelo in uomo-angelo, che veglia, con l’apprensivo sguardo all’occhio del Signore, su quel “campo seminato di indocili bufere” che è lei, Alda, chissà come e quando paganamente presa dagli allettamenti della terra. Di nuovo è l’uomo, dunque, il demiurgo dal quale, pure indocile, la donna attende la sua palingenesi, lui stesso dio di luce che trae a luce dal buio e dalla notte (Lirica antica), e per un suo figlio – il quale non può essere che “spada / lucente, come un grido di alta grazia” – lei va “gemmando fiori da ogni stanco ramo” (Genesi), senza mai uscire dalla natura propria (O Signore che vigili sul cuore), equilibrata, “come si regge un fiore sullo stelo”. Così si rappresenta come un’Eva carica di sensualità, ma di fronte a un casto Adamo che vive “difeso dalla grazia” (Visito spesso in te), o come terra arata e seminata dall’amante come da un vento selvaggio.
Del 1984 è la silloge La terra santa, che sta per manicomio, luogo dove si scatenano istinti che portano all’eros più innocente perché di più immediata e inconsapevole carnalità. È questa dunque la silloge in cui il sesso si afferma scopertamente come luogo del sacro. Già in Paura di Dio (Maria Egiziaca: nascita del divino dall’umano) e in Nozze romane (La pietà: il divenire-esistenza come itinerario verso Dio, che si genera dalla carne stessa) se n’era avuto sentore. Tutti i fermenti di vita selvaggia e primitiva fermentati in lei attraverso gli anni esplodono finalmente qui, nel teatro della follia. Come il rapporto sesso-sacralità e manicomio-terra santa si avvia, anche tramite la sovrapposizione di immagini scritturali, a divenire identità, la metrica sembra corrompersi (a partire da Il manicomio è una grande cassa di risonanza), e lo stesso pensiero savio sembra una maledizione, perché riconduce nello sguardo le distruzioni (Pensiero, io non ho più parole). Benedizione è invece la follia, in cui Alda vorrebbe perdere le memorie dell’amore, come Orfeo perse Euridice. Ma mentre in essa tutto si trasfigura, la memoria resta un’armonia di persone amate che avanzano come una triade di dei (Un armonia mi suona nelle vene). Il fuori (Affori, paese lontano), adombrato nella paronomàsia in absentia “Affori / là fuori”, è pensato come “paese lontano / immerso nell’immondezza” che “quando si conviene/ ti manda il suo raggio nudo/ dentro la cella muta” senza vincerne il silenzio.
L’esperienza della follia, la “Terra santa”, sembra in Merini (Io ero un uccello) redimere la dimensione linguistico-espressiva dal ristagno classicistico perdurante nel quarto di secolo, nonostante le rivoluzioni avanguardistiche, e nel quale Alda era in qualche modo impigliata. E così la poesia tocca verità profonde (Sono caduta in un profondo tranello), restando al di fuori di scuole e di ogni tradizionale metrica o imagery. Ciò le consente una performance poetica del proprio declino, un ammainarsi a terra, che è lo stesso della voce poetica (Io ho scritto per te ardue sentenze). Ma pure il canto sembra trasparire stesso dalla pelle, maturando in esso ciò che è immune dal tempo e dalla morte, se è un canto d’amore. Sicché la follia, che ha il piede “macchiato di azzurro” perché a condurla sono povere e terrene circostanze della vita (Il nostro trionfo), nel suo dentro leva le àncore e salpa verso le più alte cime del divino. Così attrezzata di follia, la parola del poeta spoglia altari, graffia, toglie il riposo alle ossa e acquista l’altezza necessaria per inviare profezie al mondo, preparare il viaggio verso la terra promessa, anche se essa giunga appena ad aspirarne un profumo tenue, per poi volgersi all’esilio come un canto maledetto (Le più belle poesie), in una impossibilità di vita che si estende alla stessa natura (Quiètati erba dolce).
Written by Domenico Alvino
Info
Apparso su «Poiesis», anno VI, n. 16, Maggio – Agosto 1998, p. 46.