Questa, in poche righe, la trama (e l’atmosfera che si respira) di L’uomo senza nome, secondo volume delle Cronache di Siala di Aleksej Pechov.
Il romanzo è deludente. Dopo aver affrontato un paio di difficoltà alla fine di Harold il ladro, con tanto di perdita di uno dei loro compagni, il gruppo giunge nella città di Valiostr e inizia a divagare.
Uno dei personaggi ha il mal di denti, e per parecchie pagine sembra questa l’unica preoccupazione dei protagonisti che passeggiano per le vie in cerca di un dentista. È vero, la digressione ha anche un paio di effetti molto concreti sulla trama, l’incontro con un personaggio fondamentale per il seguito e il verificarsi di un particolare evento anche grazie alla separazione in due del gruppo dei buoni, ma il senso di pericolo incombente che i personaggi dovrebbero provare non c’è. La loro passeggiata sembra proprio questo, una semplice passeggiata, mentre mancano una sensazione di urgenza e un coinvolgimento emotivo. Harold e gli altri scherzano senza essere davvero divertenti, e anche quando devono agire tutto viene fatto in modo un po’ troppo facile. C’è un problema? Tutti insieme ci pensano per ben un paio di secondi e uno di loro trova subito una soluzione.
Serve un cannone? Nulla di più facile, basta tirarlo fuori da dove se lo erano dimenticati! Che gruppo di allegri smemorati, per fortuna che fra loro almeno uno, a turno, che provvede a pensare, c’è.
Il romanzo non usa esattamente queste parole, ma il tono è lo stesso, e quando il pericolo è concreto una simile svagatezza sembra un po’ eccessiva.
Per quanto riguarda la trama si procede ben poco. Fra l’inizio e la fine del libro sono cambiati alcuni componenti del gruppo, nel senso che qualcuno è morto e qualcun altro si è aggiunto, ma la cosa è poco significativa visto che gli assenti non sono fra le figure più memorabili. Anzi, alcuni soldati non sono particolarmente distinguibili l’uno dall’altro se non per il fatto di avere nomi diversi.
La tappa poteva essere evitata. Non c’è crescita nei personaggi, non c’è cambiamento, l’impressione è che se lo scrittore fosse passato dal primo al terzo romanzo, senza scrivere questo, nessuno si sarebbe accorto di nulla. Non solo, di tappe come questa se ne potrebbero aggiungere un’infinità, con come unico limite la fantasia dello scrittore, perché i problemi simili a quelli affrontati in queste pagine potrebbero essere infiniti, tanto chi sa quali località e quali pericoli si celino sulla mappa mai disegnata di Siala?
Nel primo volume Harold è stato incaricato dal sovrano di recuperare il Corno, l’unica cosa che possa fermare il Senza Nome. L’incarico gli è stato assegnato abbastanza presto, nelle prime pagine, poi il ladro ha fatto del suo meglio per reperire informazioni, salvarsi la pelle da chi voleva eliminarlo e infine è partito. Qui c’è solo il viaggio, la cui lunghezza futura è tutt’altro che definita.
La trama, malgrado il tentativo dello scrittore di vivacizzare la storia con piccole scenette che dovrebbero essere divertenti ma che alla lunga stancano, è lenta. Per ottenere qualsiasi risultato concreto ci vuole troppo tempo, il che significa, a meno di drastici cambi di scrittura nel volume conclusivo, che ci vorrà ancora tempo prima che Harold riesca a recuperare il Corno. Che, va ricordato, è conservato in un palazzo labirintico pieno di insidie e magie sconosciute, al punto che anche solo nominarlo fa venire a tutti i brividi di paura.
Il tempo perciò appare troppo poco perché ne rimanga abbastanza per dare un degno spazio all’utilizzo del Corno stesso, al punto da far venire il sospetto che quella parte sarà relativamente semplice rispetto a tutto il resto, quasi come se fosse un deus ex machina. Sì, non compare all’improvviso come per magia, sappiamo benissimo che quello è lo scopo del viaggio, ma la sensazione che la storia perda parte della sua solidità rimane.
L’uomo senza nome è un libro leggero che si legge facilmente e che altrettanto facilmente svanisce dalla memoria, senza lasciare alcuna traccia nella mente del lettore.