Aveva trovato la sua strada.
Alessandra Paolini, nata a Cosenza quarantacinque anni fa, faceva l’avvocato e aveva una grande passione per la bioetica. “Difendere persone spesso fragili – spiega – far in modo che le cose funzionassero come fosse giusto, è sempre stato il mio sogno sin da piccola. Alcune persone che ho incontrato nella mia vita, mi hanno detto che ho un innato senso di giustizia. Non sono in grado di giudicare se ciò sia vero o meno, ma ho capito che, a prescindere dal senso o meno di giustizia, ho, questo sì, una perentoria necessità di giustizia, necessità che diventa spesso puerile, utopica, tirannica. Ma mi appartiene, è un tratto invincibile del mio essere”.
“Fu uno di quegli anelli – racconta – nella catena della vita, che si spezzano proprio mentre credi che puoi fare appello a tutte le tue forze e alla tua volontà per arrampicarti lì dove hai deciso di andare. Fu un trauma violentissimo che, ancora oggi, a distanza di tanti anni, non riesco a narrare. Mio padre si occupava di un’azienda agricola ed io mi preparai a vivere una nuova vita. Conclusi, però, il Master. Non ricordo quando di preciso tagliai con il passato. Mi resi conto che avere due passioni è impossibile. Almeno per me. Qualcuno ci riesce. Io no. E non so se lo dico per vigliaccheria, ma un bel giorno decisi di staccare con la vita passata.. Il richiamo della terra, forse, ebbe avuto il sopravvento. La terrà era lì, e c’era da tanto, da prima che ci fossi io, e volevo che continuasse a rimanere. Cominciai a riconoscere un legame forte, viscerale, primitivo con la campagna e a capire che la bioetica era il mio amore cercato, voluto, e tutto da costruire. Ci ho messo tantissimo nella vita per capire che ad ogni scelta corrisponde una serie infinita di rinunce. E’ stato così anche per questa mia scelta”.
Ricominciare, lo ripete, è stato faticoso. “Non avevo alcuna competenza – chiarisce Alessandra – tranne quell’aria respirata per casa, non sapevo nulla di nulla. Sì, certo, avevo una familiarità con la terra, quasi una fisicità, ci ho sempre giocato, l’odore mi inebriava e mi dava una felicità difficile da descrivere. Amavo impastare le mani nude con quella terra, respirarla. E poi, seminare e vedere nascere, accudire i miei alberi, che soddisfazione! Sì, ho improvvisato, ho improvvisato tantissimo. Subito, e non tanto per superficialità, ma perché non avevo modo e maniera per prepararmi su quello che, giorno per giorno, avrei dovuto affrontare. Tutto è stato difficile, davvero tutto, soprattutto gli aspetti amministrativi, più burocratici. Venivo, sì, da studi giuridici. Ma quanto mi è costato difendermi da spietati tradimenti, persone che mi avevano vista crescere e che lavoravano in azienda da tanto! E’ stato difficile farmi accettare in un contesto molto maschilista. Io, più giovane e per di più donna, finivo per rappresentare un bersaglio comune contro il quale coalizzarsi. E’ stato faticoso capire i linguaggi e spiegare i miei, restare trasparente e diretta, dialogando con persone che non ritenevano tutto ciò un pregio, bensì un insulto. La doppiezza era ed è molto diffusa e latente. A spegnermi, spesso, sono stati più i colpi bassi che quelli diretti. Mi rattristavo, perché cominciavo a perdere l’innocenza, il candore che avevo sempre avuto”.
Dalla sua, c’è sempre stata la famiglia. Sua madre, in primo luogo. E poi suo marito – che ha accettato, forse a volte ‘subìto’ e poi amato la scelta di Alessandra.
Come ha superato le difficoltà iniziali? “Razionalmente non lo so – risponde Alessandra – perché a guardarmi indietro posso solo dire che, in effetti, ne ho avute tantissime e anche molto serie. Tanti gli eventi straordinari e negativi che hanno creato grossi problemi all’azienda e quasi minato la mia voglia di andare avanti. Oggi credo di poter dire che le ho superate grazie all’amore e alla forza delle persone vicine. Non ricordo più quante volte ho pianto, urlato, mi sono arrabbiata, mi sono depressa. Dopo tanti anni ho capito che avrei dovuto rimboccarmi le maniche e reagire, battermi per me e la mia azienda. E allora? Ho iniziato a buttarmi a capofitto nel lavoro, ad osare, combattere, credere e, finalmente, sperare di nuovo. Forse è stata anche la mia fede. Dopo anni ho iniziato ad intravedere una strada, un percorso, un senso. E ho capito che le prove immense la vita le riserva altrove. Allora ridimensioni tutto e tutto inizia a dipanarsi sotto la giusta luce”.
E’ stato allora che Alessandra ha scelto la strada da far prendere all’azienda: gli ulivi. “Perché – sorride – sono bellissimi da abbracciare. Scherzi a parte, un giorno ho deciso a malincuore di estirpare un vigneto che, devo dire, amavo tanto. E ho messo al suo posto un uliveto. Da allora non ho mai smesso di amare questi alberi. E’ nata una passione, che si è trasformata in amore, cura, dedizione. Volevo creare qualcosa di buono che dalla terra arrivasse direttamente al consumatore senza giri e aggiustamenti. L’olio.”.
Di qui i corsi che Alessandra ha seguito. Prima per sommelier dell’olio, poi uno di assaggiatrice di olio e per finire uno di assaggiatrice di olive da mensa.
“Occuparmi degli ulivi – fa sapere – mi dà tanto, una carica, un entusiasmo, una motivazione, una speranza, un compito, un impegno. Mi regala la possibilità di esprimere e realizzare qualcosa che credo sia giusto. La vita di un agricoltore non è più o meno dura di quella di chi svolge qualsiasi altro lavoro con serietà onestà, coerenza e dedizione. Ma per noi alto è il rischio di impresa. Curi un pescheto incessantemente, con apprensione, amore, sacrificio, rischio, investimenti, competenze, poi un giorno, un’ora, un attimo di grandine e non esiste più quello per cui hai lavorato. E così è per tutto il resto. Questo, seppur tanto banale, credo sia difficile da spiegare e capire. Altro aspetto difficile da sopportare è questo: un’ abissale ignoranza, che diventa disaffezione ed estraneità al mondo agricolo. Oggi spesso non si conoscono più neppure i prodotti di stagione”.
Alessandra oggi è soddisfatta. Ogni tanto, inutile negarlo, pensa alla sua vita passata. “Solo ogni tanto – chiarisce – perché qui c’è sempre da lavorare. Per fare questo lavoro non puoi permetterti di lasciarti andare. Devi essere sempre presente a te stesso. E soprattutto, cosa non facile da sopportare, prepararti al cambiamento continuo, adattarti all’imprevisto”.
Cosa è rimasto della sua esperienza da avvocato? “Beh – replica – a parte le competenze che mi sono servite a difendere il mio lavoro e l’azienda, la disciplina, la speculazione, la logica, l’astrazione, forse la dialettica, la sintesi, l’analisi e in ultimo, se non in assoluto, il desiderio di provare a realizzare ‘qualcosa di giusto. Più che nostalgia della mia vita altra, forse ho curiosità. Mi chiedo come sarebbe andata a finire. Si, a volte ho struggenti, rabbiosi attacchi di nostalgia, ondate di rimpianti. Ma con il passare del tempo tutto si smorza, si dilata, si stempera e mi sento tranquilla. Perché capisco che questa è la strada giusta per me”.
Cosa le manca della sua passata attività? “Mi mancano molto – afferma – moltissimo il confronto, la dialettica schietta, pulita, costruttiva, mi manca il crescere grazie agli altri e con gli altri , mi manca forse, è mi scandalizzo a dirlo, lo studio. A volte mi mancano gli interlocutori. Mi manca un giorno senza telefono, mi manca la possibilità di decidere quando andare in vacanza. Non posso sparire, essere irraggiungibile, introvabile. Mi mancano la tregua, la sosta, la possibilità di cancellare qualche volta dalla mia testa l’azienda e dalla testa dell’azienda me. In campagna ho perso e guadagnato la libertà! Decido io senza censure, senza limiti, senza controlli e questo è al contempo libertà e schiavitù, perché a volte non c’è peggior aguzzino di noi stessi. Forse ho guadagnato in elasticità, ma a dire il vero non so se tutto ciò mi sia derivato dal lavoro o dalla vita o forse da entrambi. Ho rinunciato ad una vita più comoda, più sicura, più garantita, più protetta, più programmata, più, in certo senso, diritta e tracciata. Ma forse sono solo ipotesi, dopotutto avrei dovuto avere la possibilità di vivere più esperienze per poterlo asserire con certezza”.
E veniamo al suo olio. “Produciamo diversi profili di monocultivar e blend – specifica - li vendo a privati, enoteche, in parte minima alla ristorazione. Ne produco intorno ai sei- sette mila litri, ma la cifra è in espansione. Fino ad ora ne ho esportato davvero poco, del resto sono agli inizi come produttrice di olio, ma spero che quest’anno possa concretizzarsi un bel progetto, a cui tengo molto, soprattutto per le belle persone che mi ha permesso di incontrare e che mi aiuterà ad esportarne di più”.
Una domanda sulla sua terra. La Calabria. “Della Calabria – risponde – faccio troppa fatica a parlare, la amo e la odio con una profondità e una totalità davvero viscerali. Potrei dirle tutto il bene ed un attimo dopo tutto il male immaginabile. La Calabria scorre letteralmente nelle mie vene e, forse proprio come per il proprio sangue, non posso che essere terribilmente amorevole e più ancora atroce. Amo la Calabria e forse se non fossi nata qui non sarei mai stata invaghita della terra, degli ulivi, delle distese di grano, dei pescheti in fiore, dell’odore della zagara, dei covoni di fieno, del sole che brucia la pelle e di tutto quello che fa sì che, al di là del bene e del male, io senta che è lì che voglio esprimere qualcosa. Eppure con eguale intensità arrivo ad odiarla e di questo sentimento provo compiacimento e orrore. Lavorare in modo onesto credo che ora sia pressoché impossibile ovunque, ma le garantisco che di tutti gli attacchi alla legalità che ho potuto incontrare fino ad ora, forse i più pesanti e i più stremanti sono arrivati alla luce del sole: sono i ricatti legalizzati, Produrre un olio buono, in effetti è complesso, mi sono dovuta scontrare con convinzioni molto radicate. Sì, in questo caso, forse, sono stata penalizzata, ho dovuto insistere tanto, cambiare strada, interlocutore, a volte crearmi anche antipatie, ho dovuto fare appello a tutta la mia irrefrenabile voglia di ottenere ciò che sapevo essere giusto e la lotta continua. Una volta quand’ero piccola, per un motivo specifico che mi faceva stare tanto male, avevo trovato una soluzione: mettere le ruote all’azienda e portarla via, lontano. Crescendo, quel desiderio si è ripresentato più e più volte e più incessante, ma so che, anche in questo caso, il dare e l’avere sono una partita aperta, e so che sia io che il mio lavoro non saremmo stati così, se non in Calabria. Io, poi, non avrei percorso le strade percorse se non qui, e quindi ancora una volta so che è bene così!
Per info www.agricoladoriasrl.it
Cinzia Ficco