Alessandro baricco e il giornalismo culturale

Creato il 02 febbraio 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Simone Gambacorta

Alessandro Baricco (da vialiberamc.it)

Uno dei più convincenti esempi su cosa si possa intendere per “giornalismo culturale” lo ha offerto anni fa il sempre vituperato Alessandro Baricco. Sempre, e a dire il vero pure troppo, dato che è oramai abitudine diffusa quella di prendersela con lo scrittore piemontese così, un po’ per passatempo e un po’ per partito preso, in ogni caso per una moda che ha molto a che fare col sentito dire e col gusto di atteggiarsi a tipini raffinati e con la puzza sotto al naso.
Ma comunque, al di là del fatto che i suoi libri piacciano o non piacciano, ed è naturale che possano non piacere (come ha dimostrato Giulio Ferroni), Baricco è un eccellente divulgatore. Sono molti a ricordare le sue apparizioni televisive, dove parlava di letteratura e musica e di qualsiasi altra cosa a suo avviso avesse a che fare con la bellezza.

Erano gran bei momenti, checché se ne dica o si senta il dovere di dirne, e c’è un sacco di gente che di certi autori ha sentito parlare per la prima volta lì, per poi magari affezionarsene: non tanto il solito Carver, che è una solfa che sappiamo tutti a memoria, e nemmeno giganti come Rilke o Celine o Gadda, quanto maestri come Hubert Selby Jr. e Cormac Mc Carthy, noti a tanti ma poco noti al grande pubblico (almeno all’epoca) e letti e raccontati in quell’ottimo laboratorio che è stato “Totem”.

La divulgazione è un mestiere difficile, e in Italia è sempre stata vista un po’ così, con una certa cautela, come se fosse roba di seconda scelta, e per di più come se alcuni importanti esempi, anche a livello televisivo, non avessero lasciato alcun segno. Baricco di buono ha che, se parla a qualcun altro di un romanzo o di una tragedia greca, riesce a far “sentire” quel che dice: lo farà pure con un po’ di maniera, con un certo compiacimento, ma accidenti se lo sa fare. In questo campo è bravo come pochi.

Il giornalismo culturale è divulgazione. Uno la può mettere come vuole, ma il punto è quello: divulgazione. È un modo di mediare, di fare da tramite, di mettere in rapporto. Diciamo pure: di contagiare. Cioè a dire: di far venire voglia, a un interlocutore il più delle volte ignoto, di andarsi a leggere quel tale libro o di andarsi a vedere quel tale film. Un contagio felice, per capirci. Sano. Dopo di che, sia data accoglienza a ogni teoria e opinione su cosa sia o non sia il giornalismo culturale, ma dal baricentro divulgativo non si scappa. Il resto è fuffa, prima ancora che noia.

Un’ottima prova di giornalismo culturale Baricco la diede su «Repubblica», il quotidiano, con una serie di articoli sulla “Bohème”. Quelle pagine ora si possono leggere in “Barnum 2”, che a pari di “Barnum” è tra le migliori cose di Baricco, e soprattutto è una bella scuola di scrittura giornalistica (in senso lato), non pedante né vecchia o tanto meno provinciale. Qualcosa di buono che farebbe bene a molti, in particolare in ambito di stampa locale, dove spesso vige un’idea di giornalismo antiquata, se non proprio vizza e ridicola.

Una rappresentazione de “La Bohème” (da sarasotaopera.org)

Successe che a Torino misero in cartellone l’opera di Puccini, e così il direttore di «Repubblica», che allora come ora era l’intramontabile e perciò sempiterno Ezio Mauro, pensò di chiedere a Baricco, musicologo raffinato (per chi non lo sapesse), di preparare i lettori del giornale all’evento. Il punto di partenza era indiscutibile: anche se tutti dovrebbero conoscerla (premessa scolastica eppure inevitabile), non è detto che la “Bohème” la conoscano tutti, e allora facciamo in modo di spiegare che cosa mai sia quest’opera e vediamo di contagiare qualcuno con la voglia di fare un salto a teatro. Magari due, andata e ritorno, se non altro perché la speranza è l’ultima a morire.

Baricco, da par suo, pensò che l’idea fosse buona e si mise al lavoro. Volta a volta, mandava i pezzi al giornale, e così facendo raccontò a puntate, e in chiave molto contemporanea, la faccenda. Questa smania di attualizzare, a tratti anche spregiudicata, è certamente un suo pallino: si veda il “Don Giovanni”, si veda l’assai discussa “Odissea”. Ma la “Bohème” la raccontò con una tale felicità e facilità, e con un tale amore, che bastava davvero un attimo per ritrovarcisi dentro fino ai capelli, e per avere voglia di saperne di più e di averne ancora. Le diede una luce diversa, ma le restò fedele. Uno stava lì, tra Mimì e Rodolfo, come se fosse della partita.

Per appurare l’ottima riuscita dell’esperimento ,basta poco. È sufficiente prendere una qualsiasi persona dotata di sensibilità culturale, ma magari non ferrata in area melodrammi (per esempio chi scrive), e mettergli sotto gli occhi gli articoli baricchiani. L’effetto sarà uno: a quella persona verrà l’uzzolo di andare a teatro, forse anche quello di leggersi per bene il libretto di Giacosa e Illica. Il fatto è comprovato da varie testimonianze (per esempio quella di chi scrive).

La morale della favola è che l’operazione “Bohème”, per come l’ha condotta Baricco, è un esempio di giornalismo culturale coi fiocchi. Sarà un giornalismo occasionale, perché con ogni evidenza Baricco non è un giornalista, sarà un giornalismo che può lasciare perplessi per quell’indulgere all’uso della prima persona (non del tutto ingiustificato, in quel caso lì), ma è fuori discussione che sia stata e resti un’ottima esperienza, per quanto riguarda la cultura sulla carta stampata.

Il ragionamento è del resto lapalissiano, ma sarà bene ridurlo ai minimi termini: un giornale esiste per essere letto, cioè per informare chi lo acquista di questo e quello, e visto e considerato che su un giornale si parla fra l’altro di cultura, se degli articoli riescono a destare un interesse per un argomento culturale, vuol dire che quegli articoli hanno centrato il proprio obiettivo. Né più né meno. La triangolazione può dirsi riuscita al meglio: quotidiano, articolo lettore. Gol. Palla al centro, si ricomincia.


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