Alessandro Corso - Disinganni essenziali

Da Ellisse


Alessandro Corso - Disinganni essenziali - Ladolfi editore

C'è crisi, c'è grossa crisi!, ripeteva ossessivamente un personaggio di Corrado Guzzanti. In effetti non c'è molto altro di cui parlare, nella poesia attuale, con molta voglia però che qualcuno mi smentisca al più presto. Alessandro Corso, in questa sua opera prima, ha almeno il pregio di affrontare questo precipitare, questo annegamento dell'uomo nel suo proprio vomito da un punto di vista un po' meno astratto, simbolista, e selfie (nonché selfish) del solito. Anche se lo fa usando strumenti culturalmente già vecchi, da un certo punto di vista, come vedremo, almeno il piglio è, per sua stessa ammissione, narrativo, cioè meno ombelicale del solito. Questo significa, quanto meno, che il linguaggio, obbligato ad una funzione operante di comunicazione, è meno autocompiaciuto di quanto lo sia in altri autori di questi tempi, nei quali la lingua con le sue contorsioni è la prima rappresentazione di quella stessa crisi: il mondo è illeggibile, ergo il mondo è indicibile (o in-scrivibile) con insufficiente chiarezza. Dice Corso in una nota: "La problematica affrontata nella raccolta si fonda su un continuo rimando al binomio uomo-macchina, attraverso l’uso di vocaboli e modelli del linguaggio tecnico-informatico contemporaneo, basata per lo più sul verso libero e sull’uso dell’endecasillabo. In un era dove valori e mestieri si vanno perdendo uno dietro l’altro, dove tutto sembra avere il suo “corrispettivo” tecnologico, il suo clone insomma, ecco giungere la poesia a porre e porsi degli interrogativi pressanti e fermi. Uno fra tutti, se in tale contesto abbia ancora un senso scrivere, “vivere d’arte” ". L'idea è ambiziosa e la domanda retorica, nel momento stesso in cui Alessandro, e gli altri, si mettono alla tastiera. Se la bellezza non è più in grado di salvare il mondo, forse è in grado di conservare istintivamente sé stessa. Soprattutto attraverso , direi, una estensione del poetico, ovvero di ciò che poeticamente può essere detto, un allargamento cioè del numero delle cose che possono essere trattate in poesia. E' in altre parole una ri-colonizzazione di un territorio disumanizzato, ovvero popolato di uomini a loro volta colonizzati. La risposta allora è: scrivere ha il senso della resilienza, come quella di Winston in 1984, fin dove è possibile. E' ad esempio rovesciare a proprio vantaggio l'impoverimento stesso di una lingua pervasiva, la sua techné riduzionista, facendone uno speech colto. E' cogliere in certe dinamiche una ironia amara, è acquisire una coscienza dei rapporti che è tutta politica, e non può essere altrimenti. Una presa di coscienza in gran parte solitaria, ovviamente, stante che il poeta, in certe circostanze, tende ad assumere il piglio dell'iniziato, di quello che, per quanto dolorosamente, ha capito. Certo, con questi presupposti, il repertorio può essere vario e vasto, e magari composto da alcuni topoi, cioè da oggetti, cose, circostanze che col tempo sono diventati tali, perdendo quindi un po' della loro carica di novità, o di skàndalon perturbante. Giuliano Ladolfi, nella prefazione, accenna ad alcuni di essi: la società liquida (poteva essere altrimenti?), il consumismo, l'incomunicabilità, la perdita di identità, i mass media, l'anaffettività, il format televisivo e così via. E' il repertorio insomma di ciò che una volta (diversi anni fa) si chiamava l'uomo alienato, a dimostrazione che nihil sub sole novum. Abbastanza nuovo è semmai il prendere questi temi di petto cercando di darne una valenza simbolica, utilizzando in maniera postmoderna i brandelli di realtà (e di neolingua) che sono acquisibili nel quotidiano, nostro o altrui. E del resto il postmoderno ha ancora una sua collocazione, qui, se non ironica? Il quadro conoscibile è quello dell'uomo spiazzato, uno di noi, lontano però anni luce anche dalla sola idea di essere révolté, l'uomo camusiano capace di una rivolta creativa (e qui si torna alla domanda di Corso, al senso ultimo della scrittura, il suo carattere generante). Siamo ancora nei paraggi dell'uomo monodimensionale marcusiano, per intenderci. E il panorama, il canovaccio narrativo, è quello urbano, grigio, che richiama alla lontana, come accenna Ladolfi, Philip K. Dick, o forse direi Gibson, e in cui la natura, seppure agognata nella sua potestà naturante, è residuale e asfittica. Tutto sembra un po' postapocalittico, un ambiente simbolico in cui le cose, gli oggetti hanno perso il loro valore, magari per assumerne un altro d'uso, come in un film di fantascienza dove un frigo diventa un semplice scaffale con un lumino acceso dentro. Il disinganno è "essenziale" perchè capillare, anche il linguaggio mutuato dalla techné alla lunga si mostra inservibile, l'armamentario tecnologico come nominalismo, non basta nominare le cose per possederle, è finita anche questa illusione antropocentrica, c'è un depotenziamento degli oggetti e cioè della loro carica sciamanica, i nomina non sono neanche più consequentia rerum, ormai da un bel pezzo. Una poesia civile che non denuncia però un sistema di potere ma un sistema di impotenza, più o meno consapevolmente. Il modello, contrariamente a quello che dice Ladolfi, non è neanche più il Grande Fratello, non è il Panopticon di Bentham che Michel Foucault riprenderà in Sorvegliare e punire. Non c'è forse più necessità di generare uno sguardo omnicomprensivo, di gettare una luce centrifuga (da un centro verso...) sulle cose. Oltre il pensiero unico si sta andando molto velocemente verso uno sguardo unico, guardiamo tutti dalla stessa parte, fissiamo tutti gli stessi touchscreen, abbiamo tutti gli stessi desideri. Non è più necessario tenerci d'occhio, orientarci. Stiamo andando tutti nella stessa direzione. E la prospettiva, per quanta resistenza si possa mettere in atto, non è tanto quella accennata da Ladolfi del cyber-uomo o, per altri versi dell' Ubermensch di Nietzsche, ma forse quella di un relativismo (relatività) di ciò che è o che non è importante, anche come bersaglio di denuncia. La prospettiva, semmai, è quella di un uberlumpenproletariat tanto incattivito quanto disincantato. (g.c.)
Substrati di esperienze nel mattino

Pensieri articolati tra centro e periferia su autobus
che viaggiano a rilento,
dove ognuno, chi vecchio, chi bambino,
stanzia uno spazio transitorio,
nel crogiolo dell'arbitrarietà motoria
in un viaggio inteso come fine.
"Perché l'ho preso?".
Forse l'ultima di occasioni dimenticate
o forse l'idea di perdere del tempo,
sulla corsia preferenziale delle arterie
martoriate da nuovi by-pass fognari.
Su tutto regna il lusso di non paralizzarsi alla guida,
o di troncare di netto le faccende
marcate di rosso sul taccuino,
il lusso di non dovere
calibrare il tergicristalli
nella fila dell'ennesimo semaforo.
"Che cosa è andato storto?"
eri già pronto a dirti,
sul filo del centesimo secondo di ritardo.
"Mi siederò dietro" per godermi
i personaggi di questa scena muta:
tutto è interessante,
più dell'androide telefonico sempre vigile a strapparci il tempo,
compreso lo sguardo riluttante dell'autista
sul tuo "mi scusi...",
ansioso di arrivare a una risposta.
Due amanti, a qualche metro,
non fanno una grinza.
Gli sguardi fissi sulla bussola, le suole vibranti
e consapevoli del loro prossimo passo.
Non entra un filo d'aria,
si sta come sospesi
dentro un arsenale militare,
armati di volontà e pazienza,
lo sguardo fermo sul solaietto gommato.
Una sola luccica di tutte queste porte,
come il self-control del venditore di parabole
stracarico di gadget e altre cineserie:
nessuno in questo bus
allaccia rapporti e sentimenti a breve termine,
se non con lo sguardo
sul pressing sinistr-destrorso del pilota,
sul freno e la frizione,
sul milionesimo incalzante campanello.
Una tristezza settembrina
Una tristezza settembrina mi accoglie,
insostenibile e vuota,
in attesa di una parola chiave.
Trame di pioggia sui vetri rispondono,
chiacchiere e domande:
è questo il punto esatto dell'umbelicus Siciliae?
Quanto tempo passerà per il prossimo blackout?
Quanto tempo dal prossimo taglio di funicolo?
Ieri era agosto con il suo caldo asfissiante.
Oggi contro il tempo, contro il freddo,
la necessità imprevista di rimontare la grondaia,
come deus ex machina tra impasti
di malta ed aggregati, tra i nuovi scherzetti
del sottotetto bersaglio della grandine.
In altri bricolage si perde la mente...
Chissà perché succede sempre all'ultimo minuto
di indugiare dietro il fermoporta e valutare
un nuovo serramento antitorsione dall'anima speciale?
Ieri colsi la logica dei rebus:
frattali complessi con funzione antiscasso.
Nei secoli la Sibilla Cumana
ne fece a meno per i suoi vaticini.
L'infinita riscoperta
Non speravo di rivivere oggi quest'incontro
tra l'infermo e il carnefice.
Mi credevo corpo immune e sapiente
di ogni tuo sguardo sensuale ed occulto.
Sbagliavo nel seguire l'ambaradan
dove dorme l'ectoplasma del progresso.
Ecce Melancholia! Ecco la mia preghiera
per ogni tua parola,
per ogni tua parola che si evolve,
arioso mihrab* di un arabesco chiostro.
È luce vibrante che oscilla nei miei occhi
come il vortice di mille lampadine su una giostra.
Mi ritorni assiduamente in sogno
sulla superficie patinata di ogni cosa:
altezza e intensità, diametro e potenza.
Altro indizio non ho di questa riscoperta
Non ho chiave né codice, ma solo
il fragile pensiero
della tua natura clonale.
* Mihrab: nicchia posta in una delle pareti interne della moschea
araba, per indicare la qibla, cioè la direzione della Mecca, verso
la quale deve essere rivolto il viso da chi compie la preghiera rituale.
Tenui pomeriggi
Corrono i pomeriggi dietro a un grande dinamismo,
fluttuando nei pensieri più incerti di fronte
al separé di alluminio satinato,
che sega in due l'isola della cucina.
Che strana sequenza questi pomeriggi
tenendo in mano una Kodak ingiallita
quella cara serigrafia sgualcita.
Sono teschi che ci richiamano in causa.
Le mire stanche degli artigiani
si perdono in bricolage inutili,
tra cumuli di viti, rivetti e fiberglass.
Un'antologia di pomeriggi inconcludenti,
ad aspettare il nullaosta del Comune,
il sanctificetur del telegiornale,
l'acido tannico a breve consumo.
Tutto quello che viene ci accolliamo,
tra un link e l'altro, tra le trame
di una tenda di mussola trasparente,
sul groviglio accecante del tramonto.
Ai margini di Tecnusia
Ai margini di Tecnusia ci muovevamo eleganti
ai margini dello spot e della sedia elettrica,
di telenovelas e di cronaca nera. Tuttavìa l'enfasi
della periferia suggerì un'ampia gamma di rinascite:
su cumuli di radiazioni e solfati,
su cumuli di macerie culturali.
Quello stallatico non era poi così male.
"L'umbilicus Siciliae è ancora in ballo",
tra ondate di abusivismi e camicie di forza.
Sfogliammo allegri i calendari telematici
ai margini del basic, del cobol e java,
silenziosi olocausti,
chi venerando Linux come Bakunin,
chi disprezzando ogni forma di reliquia tecnica.
Sopravviveva pure lo scalcinato contadino purosangue
che osservava l'arte gentile di bussare alla porta.
Figli di Proserpina,
non riuscimmo ad emergere dai nostri sassi
proni al Te Deum commerciale, al buco nero
dei mestieri polverizzati dall'UHT* e dall'infrarosso,
nel boom del minimalismo delle relazioni.
Fummo noi, a nostra inscusabile insaputa, i carnefici,
responsabili del calo del cinema all'aperto? E fu cervello e sale, e fede e libertà,
e grande misticismo per la cultura del diverso.
E ci piaceva... e c'intrigava...
quel gusto di ritrovarsi ai margini,
riscoprendo i semi e i grani antichi.
Ma non tutto fu male né ignoranza, solo
gusto per l'eccesso, da consumarsi
preferibilmente entro...
   ...zerounocinque/ duemilaquindici.
* UHT: acronimo di Ultra High Temperature, processo di sterilizzazione
del latte ad altissima temperatura (140° C) per brevissimo
tempo, causante un apporto inferiore di proteine e altre
sostanze termolabili.
Diario di un transfert
Nel matrimonio di Caius implode il ricordo
dell'ultima cena con il caro amico.
"Se ne vanno i miei giorni, se ne vanno...
crollando a terra come mele marce".
Attorno sente odore di bruciato, carogna e fieno,
invano s'accende d'amore, trovando dolore
per quel misero rimorso.
"Si restringe col tempo quel mio distico,
per troppa ansia, per troppa inerzia".
Se ne vanno i giorni del Nazareno.
Crollano a terra come rami secchi,
i suoi pensieri.
"Se ne vanno gli istinti dell'inconscio
inferiore, con le amicizie
e gli affetti, le cene ad libitum e le sigarette".
Dentro il taccuino gli ideogrammi:
"Ci sono, per quanto solo";
"Non aggiungono nulla quelle gite campestri";
Sono lì, per rinfacciargli il passato,
per rinfacciargli il peso della mente.


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