Alessandro Frigerio “Budapest 1956. La macchina del fango” – Un libro sulla rivolta ungherese del ’56

Creato il 15 febbraio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
di Michele Marsonet. Merita di essere segnalato un bel libro di Alessandro Frigerio “Budapest 1956. La macchina del fango” (con prefazione di Paolo Mieli, editore Lindau). Lo sto leggendo in questi giorni, e tratta dei resoconti forniti dalla stampa del PCI in occasione della rivolta ungherese del ’56.

Come nota Mieli nella sua lucida prefazione “i fatti sono noti”, io direi anzi notissimi. Innumerevoli i volumi dedicati all’argomento, tra i quali mi limito a citare quello di Enzo Bettiza: “1956. Budapest: i giorni della rivoluzione” (Mondadori 2006). Il giudizio storico è ormai netto, con le autocritiche successivamente espresse da tanti esponenti di primo piano del Partito Comunista, da Pietro Ingrao all’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, allora favorevole all’intervento sovietico.

Ossessivo il rifiuto de “L’Unità”, “Vie Nuove” e “Rinascita” di parlare di rivoluzione. Veniva sempre usato, per descrivere ciò che stava accadendo in Ungheria, il termine “fatti”, con il fine di sminuire la portata della rivolta popolare. Assai note anche le crisi di coscienza che portarono Antonio Giolitti e altri ad abbandonare il partito sul quale Palmiro Togliatti esercitava un controllo ideologico ferreo, basato tra l’altro su categorie gramsciane interpretate secondo i canoni di una rigida ortodossia.

Dal mio punto di vista, tuttavia, è essenziale cercare di capire perché la stragrande maggioranza di dirigenti e militanti esprimessero giudizi favorevoli così netti sull’intervento sovietico. Non è certo una questione banale. Oggi è facile condannare senza “se” e senza “ma”. Allora, per chi viveva e s’impegnava all’interno del PCI, lo era assai meno.

Scrive dunque Frigerio che “un mito straordinario – e della cui portata oggi si stenta quasi a credere – circondava il Paese della Rivoluzione d’Ottobre negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale”. E qui occorre rifarsi all’ormai classica analisi di François Furet ne “Il passato di un’illusione”, quando sottolineava che, per l’Unione Sovietica, il successo nel 1945 era stato, ancor prima che militare, teologico-politico.

Proprio per questo occorre scegliere una chiave di lettura adeguata al fenomeno che si vuole interpretare. Il marxismo – soprattutto nella sua versione leninista – è stato una grande utopia, la maggiore del secolo scorso. Aderendovi si entrava a far parte di un sistema etico-ideologico onnipervasivo, retto da leggi sue proprie e dominato da canoni peculiari di scientificità. In tal senso esso offriva ai suoi adepti un’interpretazione totalizzante della realtà e della storia, dotata di un proprio e unico concetto di “verità”. Non è quindi difficile comprendere come il militante comunista fosse automaticamente condotto a giustificare ogni eccesso in vista del conseguimento di un obiettivo di ordine superiore: la fine dello sfruttamento e la realizzazione di una società senza classi.

E’ sufficiente del resto leggere il celebre volumetto “Il Partito Comunista Italiano” scritto da Togliatti per capire che le cose stanno così. Nelle sue pagine la nascita e il successo del partito vengono visti come il risultato di una “necessità storica”. In altri termini i comunisti – a differenza degli altri – pensavano di aver rettamente compreso il vero significato della storia e le leggi necessarie che sovrintendono al suo sviluppo.

Scriveva Togliatti: “Se per impedire l’avanzata di un partito o, aggiungiamo, delle idee, delle proposte, dei programmi che esso rappresenta, è necessario trasformare la natura e struttura stessa dello Stato, togliendogli qualsiasi carattere democratico, ciò non può significare se non che quel partito, le sue idee, le sue proposte, i suoi programmi sono qualcosa che irresistibilmente prorompe dal seno stesso della società e che è destinato inevitabilmente a imporsi, qualora non lo si impedisca con mezzi violenti. Si tratta della funzione e necessità storica del comunismo, più correttamente, diremo noi, la funzione e necessità storica del formarsi e affermarsi in Italia del partito comunista. Un movimento storicamente necessario, dunque”.

Tale sviluppo, d’altro canto, poteva subire battute d’arresto momentanee, ma non assolutamente interrompersi: la società senza classi, di cui l’Unione Sovietica rappresentava la prima – per quanto imperfetta – incarnazione, era il risultato cui la storia stessa avrebbe condotto in modo inesorabile, anche indipendentemente dalla volontà dei singoli individui. Si noti, tra l’altro, che queste considerazioni togliattiane non risalgono alla svolta di Salerno, e cioè agli anni ’40 e al periodo staliniano, bensì al 1958.

Vi è allora un senso in cui è giusto affermare che Togliatti non poteva comportarsi in modo diverso: basta rammentare che egli non si sentì mai di revocare in dubbio gli assiomi su cui poggiava il marxismo-leninismo. Non, dunque, le confuse e deboli teorizzazioni di un Marcuse, ma uno schema concettuale estremamente chiaro e inflessibile, in cui ogni parte si muove con la rigida sincronia dei movimenti di un orologio. Ma non ci sono considerazioni meramente storiche che possano farci capire tutto questo. E’ piuttosto l’analisi delle visioni del mondo nel senso storicistico di Dilthey – vale a dire la filosofia – a svolgere tale funzione.

In altre parole, per comprendere il marxismo e l’azione dei partiti comunisti come quello italiano si deve accettare il fatto che tanto i dirigenti quanto i semplici militanti “credevano” nel senso religioso del termine, e vivevano all’interno di un mito di cui l’Urss costituiva l’incarnazione e la realizzazione concreta, per quanto ammissibilmente imperfetta. Ciò significa che non erano in malafede né li si può giudicare facendo ricorso a categorie esclusivamente liberaldemocratiche. Bisogna comprendere immedesimandosi, mettendosi nei loro panni. E’ evidente che Stalin e Togliatti avevano la stessa visione del mondo e condividevano il medesimo schema concettuale. E, se ci si muoveva all’interno di quello schema, la sopravvivenza dell’Urss – in quanto bastione di un socialismo concepito in “quel” modo – costituiva l’obiettivo primario.

Ma occorre anche rammentare che il marxismo, pur essendo un sistema chiuso, non costituisce affatto uno schema concettuale incommensurabile rispetto ad altre visioni del mondo (nel senso forte e kuhniano del termine). Per comprenderlo è necessario immedesimarsi con chi credeva nelle sue assunzioni di fondo e, senza condannare in modo aprioristico, cercare di capire perché da tali assunzioni discendessero – in modo pressoché meccanico – determinate conclusioni.

Non si deve insomma scordare che in quel momento storico c’era uno Stato che, pur restando tale, si proponeva al mondo come Idea. Alcuni credevano, altri no, e in Italia i credenti erano in numero ben superiore rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale. Uno dei meriti di Furet è aver compreso che il successo delle idee marxiste si può in fondo far risalire alla stessa debolezza del liberalismo, all’incapacità della società liberale di costituire un corpo politico. Al contrario, l’incarnazione statuale del marxismo consentiva di pensare il corpo sociale come unità, il che significa – per dirla ancora una volta con lo storico francese – ritrovare l’unità del corpo sociale attraverso il partito-Stato.

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