alessia e michela orlando: RICORDANDO ANNIBALE RUCCELLO-IL SUO CORPO E LA PAROLA-FERDINANDO

Creato il 15 agosto 2010 da Gurufranc

PER RICORDARE UN GRANDE DRAMMATURGO

ANNIBALE RUCCELLO: IL SUO CORPO-LA SUA PAROLA

FERDINANDO

La drammaturgia di Annibale Ruccello fu stroncata sul nascere, con i suoi trenta anni. Eppure l'indimenticato drammaturgo campano (nacque a Castellammare di Stabia il 7 febbraio 1956) ebbe ben presente le origini del suo teatro e la consapevolezza del contesto che lo precedette: la tradizione e la sperimentazione del teatro italiano degli anni Sessanta e Settanta. Conobbe e analizzò la caratteristica del teatro di quei decenni; non gli sfuggì come la sua epoca fosse caratterizzata da forti attacchi al teatro cosiddetto ufficiale, e soprattutto alla parola come elemento preponderante delle messe in scena, per riportare l'attenzione sul gesto e sull'immagine, privandosi addirittura e volentieri del testo con l'intento di creare un teatro del silenzio dove la comunicazione avviene in tutti i modi tranne che attraverso il linguaggio. È negli anni Ottanta che si esaurisce la fase di ricerche e sperimentazioni che aveva portato il teatro italiano non istituzionale ad affrontare in un campo di battaglia aperto, visibile a tutti, l'egemonia del testo e della parola. L'intento era sostituirla con altri codici, a iniziare dall'uso di una scrittura organizzata per segni, in cui brani di testo, la colonna sonora e l'intera offerta visiva, gestuale e di movimento, in scena, servisse alla composizione della partitura, dello spettacolo, a mostrarne la carnalità, l'identità. Al predominio del teatro di consumo, influenzato da criteri extra artistici, si sostituiva la rivalutazione del teatro di parola, in cui si riportava l'accento sull'individuo, sulla trama, sui personaggi e sul dialogo. E consapevolmente Annibale Ruccello chiarìla sua collocazione: La nostra drammaturgia è nuova perché non parte, non si collega alla generazione precedente dei drammaturghi italiani, quelli degli anni '50. Scaturisce invece assai più dal lavoro degli anni '60 e '70, più dalla sperimentazione che dalla drammaturgia tradizionale […]. Il nostro punto di riferimento è la vecchia avanguardia del '60, con tutte le sue ramificazioni, e per noi che ci consideriamo in qualche modo l'avanguardia degli anni '80, c'erano due strade: una era quella intrapresa dalla "Nuova Spettacolarità" che portava alle sue estreme conseguenze il discorso su un tipo di teatro di immagine e di suono. La seconda era quella del ritorno alla narrazione. Da qui la giustificazione del termine "drammaturgia". (Una drammaturgia sui corpi, in "Sipario", n 466, marzo- aprile 1987). Ruccello diffonde anche il concetto di un musicale scassato: allude ad una cadenza o ad un modo di parlare che possono richiamare la musica di una radio mal sintonizzata. Il linguaggio dei personaggi è l'incarnazione di stereotipi verbali che individua nel suo stesso ambiente e ne riproduce l'incapacità di comunicare. E dice: Tendo molto a costruire per linguaggi anche i personaggi. Spesso individuo prima un modo di parlare e poi intorno a quello costruisco il personaggio vero e proprio. Alla fine mi accorgo di aver riprodotto delle stereotipie verbali che sono del mio ambiente, di mio padre di mia cugina, pur cercando di evitare, come massimo dei mali, di far autobiografia a teatro. Finisco comunque per raccontare il mio ambiente.

Siamo nel tema del linguaggio inteso non solo come comunicazione verbale, ma anche come comunicazione del corpo, non nel senso di teatro gestuale ma di

comportamento. Quello che Ruccello mette in scena è la sottocultura in cui la provincia napoletana è immersa negli anni Ottanta; i personaggi sono protagonisti di storie che nascono e si muovono nel convenzionale; la Napoli portata sulla scena si presenta come una terra di frontiera in cui si affrontano una tradizione che non vuole cedere il passo e i miti diffusi dai mass-media. Non manca il rapporto di scambio con la tradizione del teatro napoletano, ma con modalità linguistiche innovative. Neanche ciò gli sfugge: I nostri testi sono anomali linguisticamente. Non sono in dialetto e non sono in lingua. Le differenze stanno nelle chiavi di lettura di ognuno rispetto a questa tradizione e a questa città. L'autore si identifica soprattutto nell'esperienza artistica di Roberto De Simone. Con lo stesso collaborò alle ricerche antropologiche e accanto a lui seguì l'intero allestimento della Gatta Cenerentola. Riguardo al rapporto con il Maestro Roberto De Simone, Ruccello dichiarò: C'è il fatto che io ho lavorato con Roberto De Simone, anche se non in teatro, ma per le ricerche antropologiche, dal 1975 al 1978 […]. E poi c'è una scelta di De Simone che mi trova d'accordo: lui ha individuato consapevolmente una comunicazione che è più fonica che contenutistica. E i miei personaggi non comunicano mai per

contenuti, comunicano per forme, per linguaggi. Anche se i miei linguaggi sono diversi da quelli di De Simone: lui tende ad un "musicale tornito", io preferisco un "musicale scassato", un musicale, diciamo, minimale, se vogliamo dargli una definizione più o meno corretta musicalmente. Tutto quello che avviene ai personaggi, avviene quasi esclusivamente con corpi e suoni, anche se poi c'è una trama. Ma i miei personaggi difficilmente diranno una frase epica, che faccia esclamare: " ecco qui c'è il tema, il contenuto".

Nel suo teatro c'è l'angoscia indotta dai media, dall'emarginazione metropolitana e dalla ghettizzazione delle campagne. Come drammaturgo ebbe la rara percezione di essere un uomo del suo tempo: volle costantemente e con forza coltivare la memoria delle proprie radici senza per questo abbandonare l'indagine attenta e lucida del presente. Da ciò l'evidenza del rapporto con la metropoli ma anche con le storie di gente un po' alla deriva, non solo in senso sociale ma anche psicologico. L'autore si appropria dei canoni del giallo come plot narrativo in cui tutti i personaggi emergono come colpevoli e chi le loro evoluzioni osserva, lo spettatore, diventa uno spione invischiato che se ne sta al buco della serratura (non ci sarebbe altro modo di conoscere certe intimità) oppure ascoltare ogni parola standosene con l'orecchio attaccato a una parete. Si avvale anche della cronaca nera e le storie narrate riguardano gente banale che non suscita compassione: è colta nel momento estremo del suo esistere, mentre sta per compiere un gesto eroico o atroce; i suoi sono personaggi grotteschi, quasi mostruosi, relegati forse ai margini, ma non in maniera plateale, come potrebbe rilevarsi nei modi di fare dei pazzi. Ciò accadde, per esempio, quando scrisse Anna Cappelli: è un'impiegata che vive ai margini della società, tra camere con uso di cucina in comune; uffici sterminati e il sogno di una casa tutta sua e di un uomo che la prenda come sposa. La sua risposta alla solitudine, dopo l'ennesimo abbandono sarà violentissima e insieme teneramente straziante.

Ebbene, alla base vi è un fatto di cronaca che suscitò orrore: un giapponese uccide un giovane olandese e ne mangia la sua carne. E dichiarò: A me piace rubare il brutto della vita. Io sono un amante del brutto, per esempio delle espressioni linguistiche degradate, del vedere le cose al rovescio, come Benigni quando dice "Non capisco perché la televisione interrompe sempre la pubblicità con quei noiosi spezzoni di film". Mi interessa tutto ciò che ha a che fare con questa sottocultura in cui quotidianamente siamo immersi. Mi attrae e annoto. Poi mi interessano i generi, il giallo per esempio. Faccio una investigazione teatrale su una forma letteraria o cinematografica o televisiva. In fondo credo poco alle storie che racconto, mi interessa di più l'operazione: calare dei personaggi quotidiani dentro una storia enormemente convenzionale.

Enzo Moscato, che con Annibale Ruccello mosse passi importanti verso la propria drammaturgia, getta altra luce chiarificatrice: Per autori ed attori come me e il compianto Annibale Ruccello, a torto o a ragione, definiti dalla critica di settore, come i "dioscuri", i fondatori inseparabili (almeno fino alla morte di Ruccello), come i giovani pionieri di quella corrente o movimento o tendenza drammaturgica, chiamata Nuova Drammaturgia o anche Dopo- Eduardo, e che è nata giustappunto a Napoli, sulle e dalle macerie di quello spartiacque che è stato il terremoto del 1980, il rapporto autore- palcoscenico, scrittura- rappresentazione, vale a dire il legame globale col teatro, non è mai stato accademico né formale. Mai filtrato. Mai vissuto con distacco o indolente indifferenza, atteggiamento tipico dei "colletti bianchi" locali. Sin dagli inizi, ciò che ci ha mosso, ciò che ci ha motivato a metterci in scena, è stata unicamente la passione.

FERDINANDO

Se Annibale Ruccello in LE CINQUE ROSE DI JENNIFER ci porta in uno spazio assai disadorno, eppure ostentatamente pomposo (un tavolo con tre sedie poste l'una di fronte all'altra nella posa di un intimo colloquio; dove tutta la scena sembra essere in attesa di un compleanno tra superficiali comari. Al centro emerge una sedia vuota, ricoperta con un drappo rosso. Sul tavolo cinque rose) con FERDINANDO ci fa ritrovare nel 5 agosto 1870 (il primo quadro). Tutto accade in una vecchia villa borbonica della zona vesuviana. Si tratta di una partitura che ebbe immediatamente successo. E continua ad averne. In occasione del ventennale della scomparsa di Annibale Ruccello, Isa Danieli (la grandissima attrice che ebbe in mente mentre la scrisse in soli venti giorni) l'ha riportata in scena con nostalgia. È da tutti considerata l'opera più rappresentativa di un autore di culto. Lo spettacolo, che è stato in tournèe in vari teatri italiani, riproposto fedelmente così come Ruccello lo immaginò e diresse (la versione del 1986) si è incentrato sullo stesso gruppo di collaboratori e sulla medesima originaria regia del 1986.

Annibale Ruccello compose Ferdinando, partendo dalla battuta finale. Isa Danieli lo definisce un fiore di carta, che, conservato tra le pagine di un libro, viene tirato fuori di tanto in tanto e mostrato al pubblico per la sua bellezza. Potrebbe sembrare un romanzo di appendice; in alcuni frammenti ricorda un racconto verista; di certo c'è che si fonda su una profonda analisi antropologica e storica del popolo napoletano. Il finale è anche, sorprendentemente, un improvviso virare verso il noir. L'intreccio è magistrale, ma la vera sorpresa sta nel recupero di espressioni di una parlata antica, quanto mai ironica e viva. Si tratta di una scelta, quella del dialetto, che serve all'Autore per sottolineare le sfumature e i contrasti. L'azione continuerà a svolgersi nel 1870; ovvero un anno prima della presa di Roma: nella villa vesuviana vivono, in volontario esilio, due donne. L'una, la baronessa Donna Clotilde, se ne sta chiusa nella propria ipocondria, che trasferisce in una simulata infermità a letto; rifiuta culturalmente e storicamente la modernità, non le piace la nuova situazione politica e il re sabaudo. Neppure l'italiano riceve il suo amore: lengua straniera… barbara, senza sapore…senza storia…e senza Dio!. L'altra, Donna Gesualda, sua cugina povera e zitella, l'accudisce e sorveglia. La seconda intreccia una relazione clandestina con l'unico uomo che frequenta la casa: Don Catellino, curato dotto e vizioso. Il sopraggiungere improvviso di Ferdinando, che sarebbe un lontano nipote della baronessa, del quale nessuno sapeva l'esistenza, porterà scompiglio nella casa. Emergeranno passioni sopite, vizi e rancori.

Ruccello, all'epoca della prima messa in scena, chiarì che il suo intento non era quello di realizzare un dramma storico: il contesto era strumentale alla realizzazione di un ben più complesso progetto. L'opera, infatti, esamina come i precari equilibri tra i tre personaggi vengano alterati dall'inaspettata venuta di un giovanotto dalla bellezza morbosa e strisciante, utilizzando una prospettiva profonde e moderna: mette sotto osservazione il mutare di rapporti affettivi intercorrenti tra quattro persone in isolamento coatto. Donna Clotilde sembra guarire e da malata immaginaria misantropa e reazionaria, diviene una donna innamorata e gelosa; Gesualda, rifiutata dal parroco, ordisce una trama di ricatti e di vendette; Don Catellino si sfrena perdendo ogni ritegno, vivendo apertamente la sua ambiguità. E Ferdinando, che porta 'o nomme 'e nu re, si svelerà essere Filiberto, un clamoroso impostore che porta il nome di un Savoia. Ovviamente non è un caso che l'unico personaggio a parlare italiano sia proprio Ferdinando-Filiberto: finché si finge diverso da quello che è, parla infatti un perfetto, pulito, paludato italiano. Toltasi la maschera, anche lui inizia a parlare napoletano. Emergerà che si tratta di un ladro.

Ruccello mette le ultime parole in bocca a Clotilde, che, iniziando a ridere, dice: «Gesualdì!… Gesualdì!…Ce pienze… Nun se chiammava manco Ferdinando!». 

La presentazione che precede il testo FERDINANDO, Alfredo Guida Editore, è di Isa Danieli.

Nella fotografia: la copertina di TEATRO, UBULIBRI, che contiene anche Ferdinando.



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