Ci siamo conosciuti una mattina di primavera di ventinove anni fa.
Lui ne aveva undici, io pochi di più. Lui era un Martinitt, io una studentessa del liceo linguistico con cui l’istituto milanese per bambini orfani, o sottratti a famiglie difficili, condivideva il giardino. Mi chiese una sigaretta. Io non fumavo. Lo guardai come se avessi visto un extraterrestre. In piedi davanti a me c’era un bambino mal vestito, con i capelli cotonati e un linguaggio da scaricatore di porto. È così che Alessio Albani è entrato nella mia vita per non uscirne più.
La sua è una di quelle storie che chiedono di essere raccontate, specie in un momento in cui il nostro paese si avvita su se stesso in preda a tempeste economiche e tsunami politici. Sarà che ho da poco letto La piramide del caffè di Nicola Lecca, un romanzo che pur restando fedele alla realtà dei nostri giorni, regala un’iniezione di positività che per molti versi mi ha ricordato la vicenda di cui mi appresto a parlare; o sarà che sono una sentimentale senza scampo e penso che una nazione in crisi abbia bisogno di testimonianze che infondano coraggio. Quale che sia la spiegazione, non è la prima volta che sui media si parla di ex-Martinitt divenuti personaggi di successo. I casi più eclatanti sono quelli, arcinoti, di Angelo Rizzoli, fondatore della casa editrice che porta il suo nome e Leonardo Del Vecchio, presidente di Luxottica, oggi uomo tra i più facoltosi in Italia. L’amico di cui vi narrerò non è certo così celebre, ma non per questo è meno degno di ammirazione.
Alessio Albani oggi è un imprenditore che ha realizzato il suo sogno e che lotta ogni giorno per farlo sopravvivere. Il suo negozio di hair styling (ma lui dice parrucchiere), 120mq in pieno centro di Milano, porta il suo nome ed è visitato da una clientela prestigiosa. Le agenzie di spettacolo e le Tv lo contattano per pettinare e truccare attrici e modelle prima degli spettacoli o dei servizi di moda e nell’ambiente il suo nome è una garanzia. Ma quando l’ho conosciuto era solo un bambino che si difendeva dal mondo con la spavalderia di chi non ha nulla da perdere.
Alessio ha vissuto quasi tutta la sua infanzia in istituto. Figlio di un alcolizzato e di una madre incapace di far fronte ai bisogni di tre figli, è stato sottratto alla custodia della famiglia quando aveva solo tre anni.
I suoi racconti su quegli anni bui, fatti spesso di violenze fisiche e psicologiche, li custodisco nelle memorie più intime, perché scriverne fa male. Eppure Alessio, ne parla senza pudori.
Il giorno in cui lo conobbi, io stavo ripassando una lezione di francese. Si sedette accanto a me sull’erba del giardino e mi chiese di leggergli un passo del libro che avevo in mano. Ricordo come sorrideva e cercava di ripetere frasi che al suo orecchio dovevano suonare incomprensibili. “Cosa vuol dire?” mi chiedeva senza sosta. Restammo a lungo insieme a chiacchierare e anni dopo mi confidò che gli sembrò strano non essere stato scacciato. Le studentesse in genere avevano paura degli ospiti dell’istituto e quando li incrociavano giravano alla larga.
Dopo quel giorno tornai varie volte nel “giardino degli orfani” (così lo avevamo ribattezzato noi del liceo) e puntualmente Alessio si staccava dal gruppo di ragazzini con cui stava giocando e veniva da me e dagli immancabili libri che avevo sottobraccio. Mi riempiva di domande. Tutte quelle che in classe non faceva. A scuola andava male e ai professori ne combinava di tutti i colori. Eppure, la sua voglia di conoscenza mi lasciava senza parole.
Gli proposi di aiutarlo a studiare. Incontrai un responsabile dell’istituto che mi diede il permesso di venire a trovarlo un paio di volte alla settimana nel pomeriggio, dopo la scuola. E così feci. Per molti mesi. Qualche volta ottenevo il permesso per portalo fuori a pranzo. Un panino da McDonald’s, tutto quello che il mio portafoglio di adolescente poteva permettersi. Spesso, mentre studiavamo mi toccava i capelli. Li portavo lunghi, come oggi. E lui, già allora, amava acconciarli.
Un giorno, Alessio si fece espellere dall’istituto. Andarsene da lì era il suo sogno. Ci aveva già provato varie volte senza successo, ma quando una notte, con altri compagni scappò e devastò decine di auto parcheggiate in strada, raggiunse il suo obiettivo.
Lo riportarono a casa. Sua madre lo cacciò: “Se non lavori non mangi” gli disse. Io lo persi di vista. Non c’erano i cellulari a quel tempo.
Lo incontrai molto tempo dopo in una via della città, magro e sciupato. Dormiva in un auto, racimolava qualche soldo lavorando in qualche negozio di parrucchiere di periferia, lavori che regolarmente perdeva per via del carattere indomabile. Aveva cominciato una relazione con un ragazzo di dieci anni più grande di lui. Gli passava del denaro ma non poteva ospitarlo perché viveva con i genitori che non sapevano della sua omosessualità. Gli regalai qualche soldo e parole di conforto, ma vidi un adolescente sull’orlo dell’abisso. Un passo falso e sarebbe finito come alcuni dei suoi ex-compagni di collegio: in carcere o morti di overdose.
Alessio ed io in una foto di qualche anno fa
Invece, con una grinta e una determinazione che raramente ho incontrato, ne venne fuori. A vent’anni riuscì a farsi assumere in prova da un coiffeur del centro. Un uomo che dava lavoro a una ventina di persone e che aveva una clientela raffinata alla quale Alessio doveva apparire quanto meno scandaloso. Ma quel ragazzo dal linguaggio sboccato era simpatico, lavorava senza sosta e imparava in fretta. Il suo datore di lavoro (nel frattempo io ero diventata una cliente) un giorno mi disse: “Ha un talento straordinario”. Molte clienti cominciarono a chiedere esclusivamente di lui. Le sue mani lavoravano rapide e precise e i suoi tagli, ma anche la sua sincerità, divennero un plus per il negozio. Le signore uscivano soddisfatte e col sorriso. Perché Alessio aveva sempre una battuta per tutte. Grossolana, sì, ma spontanea. Noi continuammo a frequentarci e nel mio piccolo cercai di smussare certi lati spigolosi del suo carattere, di sostenerlo quando la sua vita privata si approssimava al naufragio e di motivarlo quando smetteva di credere in se stesso. Era già un artista nel suo lavoro. Ma nella sua vita privata vecchie ferite continuavano a infettarsi.
Per dieci anni in quel negozio si è formato il nuovo Alessio Albani. Il piccolo vandalo si era convertito in un ragazzo pieno di sogni e soltanto con quelli si presentò alle banche, alle associazioni di categoria, agli uffici di finanziamento per giovani imprenditori. Bussò a tutte le porte perché voleva aprirne una tutta sua: quella del suo negozio.
Ancora oggi – ricorda Alessio – non so come ho fatto ad ottenere il denaro sufficiente per aprire il mio primo locale. Erano pochi metri quadrati in un cortile interno, ma la zona era ottima. Io non sapevo nulla di prestiti, tassi di interesse, normative, contratti, tecniche di gestione. Tutto era complicato per me, ma il mio desiderio di mettermi in proprio mi aiutò a superare gli ostacoli. Aprii. Andò bene. E nel 2008 mi trasferii nel negozio in cui mi trovo adesso.
Le vetrine del negozio di Alessio Albani
in via Leopardi a Milano
Un salone in cui Alessio dà lavoro a sette persone e che tiene duro di fronte alla crisi. Si è tatuato una piccola forbice sul collo. Un modo per celebrare la passione per il suo lavoro e per dare un taglio col passato.
Alessio Albani sta per compiere quarant’anni e chi lo conosce bene sa che le ferite della giovinezza sono ancora tutte lì, nascoste nei tatuaggi cancellati sulla pelle, nei sorrisi che ora sa distribuire con generosità anche quando non ne ha voglia, nei modi cortesi che ha faticosamente dovuto imparare. E quando le clienti gli dicono “Si vede che vieni da una buona famiglia”, oppure “Con un negozio come questo tu non sai cosa siano i problemi” lui annuisce e poi me lo racconta ridendo a crepapelle.
Quelle frasi sono la mia soddisfazione, sono la mia rivincita
mi dice. E io rido con lui, felice di non dover più sentirlo piangere.
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