Quando entriamo paghiamo i trentatré euro (trentatré euro. Non avete letto male) tra biglietto e tessera e ci fiondiamo subito sotto, ché è già partita l’intro. Partono con Keelhauled, il che mi pare sia una novità. Ho avuto Keelhauled come suoneria del telefono per un sacco di tempo e nonostante questo ho sempre fatto fatica a riconoscerla dal vivo; invece oggi è tutto molto più nitido e pulito, come se nel frattempo avessero imparato a suonare. Tempo cinque minuti ed è tutto più chiaro: sono sobri. Per la prima volta da quando li vedo suonare, sono tutti (relativamente) sobri. Certo, nella faccenda c’entra anche l’ingresso di Maté Bodor alla chitarra al posto dello storico Dani Evans, uno che partiva sempre favorito alle gare a chi beve di più durante le serate invernali quando fuori piove e non rimane altro da fare che rimanere sul divano a guardare film brutti insieme a qualche spirito affine e cinquanta lattine di Fink Brau; ma stavolta Christopher Bowes e soci hanno l’aria di chi si ricorda addirittura il proprio nome, una cosa davvero inedita per quanto mi riguarda. Le tesi al riguardo si sprecano: forse Bowes è cambiato dopo il matrimonio, o magari la moglie è la sua epatologa, oppure ha deciso di volare basso una serata su cinque, o forse è colpa del fatto che sono costretti a bere quell’inqualificabile intruglio annacquato a nome Corona – quando invece al Traffic gli avevano fatto montare un bar sul palco. Alla fine della fiera però, per la prima volta, vedo gli Alestorm fare un concerto vero e proprio, più che un enorme cazzeggio in cui devi aspettare il ritornello per riconoscere la canzone.
Il che risulta essere un po’ meno bello di quanto non sembri, a dir la verità. Come si usa dire, “bene ma non benissimo”. Vedere gli Alestorm sobri è come vedere i Dream Theater ubriachi marci, o gli Emperor con la kefiah al collo e Bard Faust che suona i bonghetti: ci si può concentrare meglio sui pezzi, certo, anche se non sarebbe una cosa così necessaria visto che si sta sempre col pugnetto in aria a cantare tutto a memoria. La scaletta è più o meno la solita, e dall’ultimo Sunset on the Golden Age suonano le prime quattro e la cover di Hangover. Ci si diverte, ovvio, e l’amore si spande per l’aere anche questa volta, ma quando attaccano la conclusiva Rum e Bowes non si butta a fare crowdsurfing hai davvero l’impressione che qualcosa sia cambiato. Magari mi aveva riconosciuto tra la folla come il tizio che l’aveva scaraventato al di là del bancone del bar del Traffic, o magari si era giustamente indispettito per tutte le persone che si sono sedute per terra a vogare durante Nancy the Tavern Wench, oppure è semplicemente colpa della Corona, non lo so. Ma la prossima volta spero di rivederli stentare a reggersi in piedi, perché alla fine dei conti è questa la loro vera ragion d’essere.