Di questo uomo da solo su una barca a vela nell’Oceano Indiano non sappiamo nulla. Non conosciamo il nome, il suo lavoro, cosa l’ha spinto in questo viaggio in solitaria, la meta della sua navigazione, da dove viene, quanti anni ha, se ha una famiglia. L’unico dettaglio che potrebbe darci qualche informazione è la fede all’anulare sinistro. Ma in fondo poco importa, perché l’obiettivo di All Is Lost non è raccontare le vicende di un singolo uomo, di una persona ben precisa, di un personaggio con un suo passato e una sua storia, bensì quello di indagare il genere umano in generale, il coraggio, la caparbietà, la solitudine, l’importanza dell’esistenza. E raggiunge pienamente quest’obiettivo presentandosi come un film assolutamente sui generis, con un solo personaggio in scena, con una totale unità di spazio e tempo, senza nessun dialogo e solo due frasi pronunciate nei suoi 105 minuti di durata.
All Is Lost, presentato fuori concorso a Cannes 66, vede dietro la macchina da presa J.C. Chandor, quel giovane regista americano che due anni fa ottenne molti riconoscimenti in tutto il mondo con Margin Call, la sua opera prima, e davanti, ad illuminare costantemente lo schermo con un’interpretazione sontuosa, Robert Redford, alle prese con uno dei ruoli più complicati della sua carriera. Nonostante la sua struttura all’apparenza piatta e monotona, è impossibile distogliere l’attenzione dal racconto di quest’uomo in lotta contro la natura. Dopo aver urtato contro un container sperduto nell’oceano, dovrà prima riparare la sua barca, affrontare una tempesta, e poi cercare salvezza a bordo del gommone di salvataggio, senza acqua e senza una chiara idea della sua posizione. Il tutto è reso sullo schermo con grande ritmo interno, con momenti di pura azione e concitazione ed altri più riflessivi che mettono in evidenza i diversi stati d’animo del protagonista, prima concentrato nelle tecniche di vela per superare le intemperie, poi sempre più rassegnato per un orizzonte che non si avvicina mai.
Se l’anima del film è rappresentata da Redford, settantaseienne impegnato in una perfomance estremamente fisica che non prevede interazione se non con se stesso, bisogna comunque rendere grande merito alla regia solida di Chandor, che ha curato ogni dettaglio della messa in scena, ritraendo in modo assolutamente realistico le vicende di quest’uomo costretto a strozzare le sue emozioni di fronte ad una natura ostile che sembra volerlo allontanare da questo mondo. Assolutamente da vedere.
di Antonio Valerio Spera