L'uomo di mare che tenta in tutti i modi di vincere le avversità della Natura è una delle cose più viste nel Cinema (da Moby Dick a The Truman Show gli esempi sono tanti) e qui il regista non fa altro che riproporre la solita metafora, ma in chiave rinnovata, concentrando la sua attenzione e quella del suo pubblico verso un cinema del silenzio, fatto solo di suoni e vento e mare in tempesta e pioggia e legno che si rompe. Niente parole, o meglio, poche parole, quelle necessarie a tentare di salvarsi la vita in una sorta di silente rassegnazione al destino, contro il quale nemmeno Robert Redford (quello che stava per farla in barba a Captain America) può nulla. Chandor lascia che le immagini, gli sguardi dell'attore e, soprattutto, le sue mani, raccontino la storia, dando al protagonista tutta l'importanza sul set e nemmeno la metà della sua fama hollywoodiana. Redford viene nascosto dietro il personaggio, e il pubblico si dimentica di assistere ad un'opera di finzione con un attore importante e noto, lasciandosi illudere ancora di più durante la visione. La magia del cinema raccontata attraverso una serie di sventure che fanno patire all'uomo tutte le pene dell'inferno. Nonostante il film non si dimentichi di sfruttare i campi lunghi per enfatizzare la solitudine dell'uomo, Chandor preferisce giocare con dettagli e particolari, ricordandosi giustamente che il cinema è fatto anche e soprattutto delle piccole cose che rendono la visione più realistica, intima e naturale possibile. Un po' di sangue sulla fronte, il calore cocente del sole (ottimo il make-up del film che consuma lentamente la pelle del protagonista) e, mai dimenticarle, le mani che Redford usa ripetutamente per salvarsi la vita, per recuperare i beni di prima necessità da una nave già per metà allagata, per lanciare razzi di segnalazione, per sbracciare cercando di farsi notare. Le mani sono l'unica cosa che, alla fine di tutto, potranno salvare Redford dall'oblio dell'Oceano, le sue mani potranno nuotare nuovamente fino alla superficie dell'acqua e potranno afferrare quelle di colui che sembra l'unico ad aver visto le numerose richieste di soccorso che l'uomo ha provato a mandare a tutte le barche in transito. Di tutti i dettagli proposti, le mani sono ciò a cui Chandor ha fatto più attenzione: meglio delle parole, meglio delle grida, meglio dei monologhi disperati di rassegnazione, le mani ci coinvolgono incredibilmente in questa storia di sopravvivenza, che stupisce per i pochissimi cliché utilizzati per enfatizzare i drammi (scarsità di musiche e di melassa, totale mancanza di monologhi melensi, assenza di flashback o di un passato che spiega chi sia l'uomo in questione e via discorrendo) e che si rapporta in quasi totale sincerità con il pubblico, trascinandolo assieme all'uomo Redford - e non il divo Redford, torno a ripeterlo - attraverso tutte queste disgrazie fino alla fine del film.
L'uomo di mare che tenta in tutti i modi di vincere le avversità della Natura è una delle cose più viste nel Cinema (da Moby Dick a The Truman Show gli esempi sono tanti) e qui il regista non fa altro che riproporre la solita metafora, ma in chiave rinnovata, concentrando la sua attenzione e quella del suo pubblico verso un cinema del silenzio, fatto solo di suoni e vento e mare in tempesta e pioggia e legno che si rompe. Niente parole, o meglio, poche parole, quelle necessarie a tentare di salvarsi la vita in una sorta di silente rassegnazione al destino, contro il quale nemmeno Robert Redford (quello che stava per farla in barba a Captain America) può nulla. Chandor lascia che le immagini, gli sguardi dell'attore e, soprattutto, le sue mani, raccontino la storia, dando al protagonista tutta l'importanza sul set e nemmeno la metà della sua fama hollywoodiana. Redford viene nascosto dietro il personaggio, e il pubblico si dimentica di assistere ad un'opera di finzione con un attore importante e noto, lasciandosi illudere ancora di più durante la visione. La magia del cinema raccontata attraverso una serie di sventure che fanno patire all'uomo tutte le pene dell'inferno. Nonostante il film non si dimentichi di sfruttare i campi lunghi per enfatizzare la solitudine dell'uomo, Chandor preferisce giocare con dettagli e particolari, ricordandosi giustamente che il cinema è fatto anche e soprattutto delle piccole cose che rendono la visione più realistica, intima e naturale possibile. Un po' di sangue sulla fronte, il calore cocente del sole (ottimo il make-up del film che consuma lentamente la pelle del protagonista) e, mai dimenticarle, le mani che Redford usa ripetutamente per salvarsi la vita, per recuperare i beni di prima necessità da una nave già per metà allagata, per lanciare razzi di segnalazione, per sbracciare cercando di farsi notare. Le mani sono l'unica cosa che, alla fine di tutto, potranno salvare Redford dall'oblio dell'Oceano, le sue mani potranno nuotare nuovamente fino alla superficie dell'acqua e potranno afferrare quelle di colui che sembra l'unico ad aver visto le numerose richieste di soccorso che l'uomo ha provato a mandare a tutte le barche in transito. Di tutti i dettagli proposti, le mani sono ciò a cui Chandor ha fatto più attenzione: meglio delle parole, meglio delle grida, meglio dei monologhi disperati di rassegnazione, le mani ci coinvolgono incredibilmente in questa storia di sopravvivenza, che stupisce per i pochissimi cliché utilizzati per enfatizzare i drammi (scarsità di musiche e di melassa, totale mancanza di monologhi melensi, assenza di flashback o di un passato che spiega chi sia l'uomo in questione e via discorrendo) e che si rapporta in quasi totale sincerità con il pubblico, trascinandolo assieme all'uomo Redford - e non il divo Redford, torno a ripeterlo - attraverso tutte queste disgrazie fino alla fine del film.
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