All’ombra dei giganti – puntata n. 11

Creato il 16 dicembre 2014 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Buzzati e l’arte del narrare

Maestro, chiese impavido l’aspirante scrittore, cosa devo fare per diventare bravo come lei? Esci di qui, spiegò sereno il maestro, guardati intorno, ascolta, annusa, tocca il mondo e poi trasformalo nella materia dei tuoi sogni. Oppure, tanto per iniziare, vai in edicola, compra un giornale, e leggi. Scegli una notizia, una qualsiasi, quella che più ti aggrada, e raccontala meglio di come l’hai trovata, usando parole e concetti che ti appartengono. Quando la notizia si sarà trasformata in una storia, allora torna qui e io la leggerò con piacere.

Lezione forse tra le più scontate e banali per uno scrittore in erba, potrebbe commentare qualcuno. Aggiungendo che quello di cui parla il maestro è il bivio di fronte al quale si è trovato chiunque abbia mosso i primi passi nell’ardita impresa dello scrivere. Chi non si è trovato a dover scegliere da quale fonte attingere vicende degne di essere narrate? Non sempre l’esistenza quotidiana attrae e infiamma la vis creativa di un aspirante scribacchino. Per questo in molti ripiegano, non senza titubanza, spesso a malincuore, sulla vile cronaca.

Eppure non sempre i risultati sono tali da valere l’onore del ricordo.

In pochi sono in grado di fare arte con materiale autentico. Il mentore di cui stiamo per fare la conoscenza, fu proprio uno dei pochi capaci di trasformare la prosa giornalistica in sublime, raffinata narrazione, lezione di maestria letteraria. Trattasi, come molti avranno capito, del caro estinto Dino Buzzati.

Del maestro, in questa occasione, non potremo esplorare il genio. Ci limiteremo a cogliere un assaggio della magia con la quale affascinò per anni i lettori del Corriere d’Informazione e del Corriere della Sera. Erano gli anni sessanta del secolo scorso. Buzzati sceglieva con cura eventi insoliti, drammatici il più delle volte, fatti perlopiù di sangue. E, appunto, li trasformava.

Dino Buzzati nella sua casa di Milano

Come la storia di William E. Benson, quarantun anni, arrestato per semplice scippo, confessa insieme alle generalità anche di aver commesso un altro crimine, risalente a ventiquattro anni prima. Era stato archiviato come un banale quanto drammatico incidente. Una fuga di gas che aveva causato uno scoppio e fatto saltare in aria una scuola a New London, nel Texas, uccidendo duecentoottantadue studenti e quattordici insegnanti, più altri duecento feriti.

E invece era stato William. Allora diciassettenne, non aveva trovato di meglio per vendicarsi di un’espulsione che gli era costata le botte e i rimproveri del padre.

Dino Buzzati la racconta senza utilizzare la fredda prosa telegrafica da quotidiano che nessuno gli avrebbe contestato, ma che non lo avrebbe reso colui che ora stiamo celebrando. Fin dal titolo: ‘Ma come ha fatto a resistere tanto?’. Il nodo è soprattutto questo orribile segreto serbato per oltre ventiquattro anni. Un quesito che spaventa Buzzati, e che lo conduce a riflettere sul concetto stesso di ‘rimorso’, lo Spettro di Banco di Shakespeare. Un rimorso che spinge il giornalista a trovare le parole con le quali tanti anni prima era stata riportata la notizia della strage. Buzzati letteralmente sfoglia insieme al lettore le pagine della cronaca italiana. Sulla Domenica del Corriere, trova una tavola a colori di Beltrame, la ricostruzione della strage. Sul Corriere della Sera, invece, a pagina sette, solo un trafiletto: al tempo del fascismo non era cosa saggia dare troppa enfasi a notizie tanto negative e destabilizzanti. Meglio esaltare i successi del regime, nel caso la campagna in Libia, l’accoglienza entusiasta e festosa in terra d’Africa al Capo del Popolo, l’Uomo Giusto.

Che tempo lontano, commenta sconsolato Buzzati.

Anche il giorno dopo, sempre a seguire la cronaca libica, altri brevi dettagli del dramma texano. E poi più nulla, neppure una riga. I 282 bambini dimenticati. Da tutti, tranne che dal loro assassino. Egli serberà il peso del ricordo per altri ventiquattro anni. Un tempo infinito, portando ‘chiuso dentro’ nella coscienza il terribile segreto.

Rimorso od ossessione? Si chiede di nuovo Buzzati.

E la risposta è l’immagine insopportabile (e potentissima) di un corteo silenzioso, composto da quasi trecento spiriti, che ha continuato a seguire William, senza lasciarlo mai, giorno e notte, ovunque andasse, qualunque cosa facesse. Uno dietro l’altro, ordinati e silenziosi, 282 piccoli innocenti fantasmi. E non si sono mai persi d’animo, non hanno mai mollato la loro preda, finché William, stanco e invecchiato anzitempo, non ce l’ha fatta più. Non gli sarebbe stato più possibile continuare a convivere con quel pietoso corteo che gli rosicchiava l’ombra e il respiro.

E allora, esausto, ha confessato. Ha preferito la sedia elettrica a quel supplizio. E si è concesso nelle mani della giustizia, come un atto liberatorio, non senza tuttavia un ultimo atto d’orgoglio. Ha preteso riconoscimento per l’impresa mostruosa compiuta, per il fatto che nessuno l’avrebbe mai scoperto se non avesse confessato di sua sponte.

Un titano, pertanto, conclude con amara ironia Buzzati. Un gigante quel William E. Benson, in grado di sopportare per ventiquattro anni quella vita, quell’interminabile e silenzioso tormento. Chi mai avrebbe pensato che la natura umana fosse capace di tanto?

Un fatto di cronaca che il nostro mentore ha trasfigurato in pensiero sulla mostruosità umana, sul peso e le conseguenze del male che le anime più fragili spesso commettono, sugli atti causali di giustizia, ma anche sulla storia recente e sui vizi del giornalismo italiano.

Il tutto in poche righe. Un trafiletto, poco più.

Magia, appunto.

Samuel Giorgi



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