L’obiettivo principale di città come Milano è far credere che sotto di essa non sia mai esistito niente, che non vi fossero prati, lombrichi, grilli, funghi, fiumi, terra.
Piuttosto, una sorta di terreno neutro, di piattaforma appositamente progettata per ospitare aree urbane. Il verde che si incontra in giro dà l’impressione di esser stato calato dall’alto con una gru, come grossi vasi d’asfalto in cui far crescere alberelli imbalsamati. Certo non si pensa che Milano si sia estesa attorno ai giardinetti sotto casa tua, che l’urbanizzazione li abbia schivati per pietà.
Nessuno di noi è una città, ma chi lo dovesse diventare sarebbe probabilmente molto fiero di aver definitivamente annientato la natura, i lombrichi, i grilli, la terra sotto le scarpe che poi sporchi che ho pulito tutto il giorno, le formiche.
E infatti così si sente Milano. Libera dai fastidi del mondo come ci è stato dato.
Per questo motivo, le è assolutamente inconcepibile qualsiasi sorta di cambiamento climatico e meteorologico.
Il cielo, che in più della terra ha il vantaggio di non essere edificabile, non teme piani regolatori o tardivi capitalismi.
Il cielo si fa i cazzi suoi, e questo a Milano non sta bene. Che piova molto o piova poco, che vi sia il solleone o l’aria di montagna, il freddo sovietico o l’umidità di Satana, il milanese puntualmente si stupisce e tenta in tempi brevissimi di trarre dal proprio stupore degli enunciati parascientifici.
Vivo in questa città da 28 anni e, se solo avessi tenuto un quadernetto con qualche appunto, probabilmente mi sarei accorto che in febbraio fa sempre un freddo del cazzo, che a giugno piove parecchio, che ogni tanto nevica un po’ a caso e con quella neve che non ci fai le palle, che prima o poi arriva una settimana di caldo orribile.
Ognuno di questi eventi giunge invece al milanese come fosse irripetibile, con un fragore esasperato, e subito lo si classifica o nel novero dei sintomi di un’imminente apocalisse climatica (gente al bancone del bar che con viso preoccupato e hollywoodiano dice “comunque non è normale che faccia questo caldo”) oppure come una sorta di miracolo una tantum. In quest’ultima è categoria si colloca la Grande Nevicata.
La grande nevicata viene ogni paio d’anni, ma nessuno sarebbe pronto a giurarlo, perché ognuna d’esse può vantare ricordi dai contorni mitici e difficilmente collocabili nel tempo. Si parla di neve seria, quella che blocca tutto e che scatena battaglie clamorose davanti alle scuole, la neve di un Dio che cerca di dirti qualcosa. In una delle grandi nevicate milanesi a cui ho preso parte, o forse in tutte, si andò al Parco Lambro a fare gare di bob giù da una collina, che assomigliavano più a una puntata di Jackass dato che quasi tutti erano completamente ubriachi.
Ecco, il Parco Lambro, quello sì, dà l’idea di un pezzo di mondo schivato dalla città, dribblato per rispetto. Entrateci da Via Feltre, possibilmente di notte, possibilmente non dopo aver visto filmacci sui serial killer che girano per i parchi a caso, e cercate di sfruttare gli alberi e le pendenze – due cose con cui a Milano non si ha mai a che fare. Sugli alberi potete arrampicarvi (io non riesco), per il pendio potete fare i rotoloni o aspettare che nevichi tenendo il bob in mano. Potrebbero volerci un paio d’anni o forse no, ma quando accadrà sarà bellissimo e arriveranno persone gioiose e forse un po’ oblique, convinte che Milano sia sotto un incantesimo.
Quello che il Parco Lambro può offrirvi senza manto bianco vale comunque una visita, possibilmente in una notte ispirata, nebbiosa o disperata (quella nel video era un po' di tutte e tre). Fu il teatro dello storico, discusso, incazzatissimo Festival del Proletariato Giovanile nel 1976, quattro giorni organizzati da Re Nudo, duecentomila persone, mille casini. Oggi, gente che lo attraversa in cuffia pensando sto dimagrendo sto dimagrendo, animali feroci che non si fanno vedere e luci aliene che ti fanno credere che a Milano di notte ci siano dozzine di lune.
Anche quando non ce n’è neanche una.
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