Undici e un quarto. Lunedì mattina. Turno di riposo. Il weekend è stato devastante. Venerdì sera avevo il turno di chiusura al fast food, ho staccato a mezzanotte e sono andato diretto in un centro sociale romano per un festival di musica elettronica. Sei ore d’elettronica dopo sono tornato a casa per farmi un doccia e tornare a lavoro per il turno del pranzo. Sabato sera, seconda e ultima serata del festival. Si fanno di nuovo le sette. Come il giorno prima doccia e via di corsa a lavoro. Torno a casa verso le sei di sera dopo un gelato con un amica, una doccia, una pizza e mi metto a letto.
Solo adesso ho riaperto gli occhi.
La testa gira, lo stomaco brontola e ho voglia di morire. Sembro uscito da un romanzo di Hunther S. Thompson, forse un’altra doccia potrebbe aiutarmi ma non ce la faccio ad alzarmi dal letto. Passa ancora un’ora prima che, obbligato dall’urgenza di andare in bagno, riesca a scendere finalmente dal letto e inciampo in una bottiglia di birra vuota, che rotola verso il cartone di pizza sporco di pomodoro appoggiato vicino un secchio pieno di vecchie bottiglie di birra vuote. I vestiti di tre giorni prima sono sparsi per tutta la stanza, la divisa a terra che ancora emana sentori di fritto ha viziato l’aria insieme a quel che restava della pizza contenuta in un altro cartone.
Devo smettere di leggere Thompson!
Il telefono inizia a squillare, lo trovo dopo diversi minuti di suoneria dentro la tasca di uno dei jeans a terra. E’ Antonio, preoccupato per le mie condizioni, ci eravamo sentiti l’ultima volta il venerdì prima, gli avevo ho raccontato i miei progetti per il weekend, lui mi aveva sconsigliato di farlo, ora gli davo ragione.
Chiusa la telefonata, mi ricordo immediatamente dei numeri conquistati nelle due serate del festival, cinque in tutto. Dato che sono senza far niente, e che sono già passati un paio di giorni, penso che sia il momento adatto per una giro di chiamate, prendo il caffelatte e vado fuori in terrazza, mi siedo sul dondolo di plastica e iniziai a chiamare. Il primo numero apparteneva ad una ragazza tanto carina quanto bassa, aveva i capelli neri, e questo è tutto quello che ricordo. Chiamo. Risponde al quinto squillo. Sussurrando mi dice che non può parlare perché è in classe, e sta svolgendo un tema di italiano. Cazzo va ancora scuola, probabilmente non era bassa, solamente non ha ancora superato la pubertà, meglio cancellare il numero. La seconda ragazza non risponde proprio. La terza, anche, lei bassa con tanti capelli ricci e biondi, occhi castani, studentessa erasmus dalla Repubblica Ceca, me la ricordavo bene. Lunghi baci in pista, fino a quando le sue amiche non hanno iniziato ad insistere per tornare a casa trascinandola via, ed io sono rimasto a bocca asciutta. Lei mi risponde subito e accetta di vederci per una bevuta in settimana. L’appuntamento è per mercoledì di fronte San Paolo. Due giorni dopo, mi ritrovo ad aspettare una ragazza di fronte un’immensa basilica, un luogo insolito per un appuntamento. Lei si presenta con una mezz’ora di ritardo. Ci prendiamo una bottiglia di birra ci sediamo sul muretto e iniziamo a chiacchierare. Si parla in inglese, man mano che la birra entra in circolo, si alza il livello della conversazione.
Finita la birra, ci ritroviamo sotto un pino del parco di fronte la chiesa a baciarci, lei vorrebbe andare oltre, ma il mosaico con il santo omonimo alla basilica che mi guarda dall’alto in basso mi mette agitazione, così la invito ad andare a casa mia. Accetta. Mi richiudo la cerniera dei pantaloni e andiamo. A casa mia le cose si fanno più serie. Lei è molto sciolta ed intraprendente. Troppo. Ed io potrei godere molto di più di tutto questo se la smettessi solo per un attimo di pensare di non essere altezza. Riesco a sciogliermi un po’ fino al momento in cui lei non tenta di infilarmi un dito nel culo. Le spiego che non gradisco, imbarazzato e sempre in inglese, lei si limita a sorridere e continuiamo ancora. Salto il momento delle coccole, mi rivesto, aspetto nell’altra stanza che si rivesta anche lei e la riaccompagno a casa. Nel tragitto mi confessa che è stata bene e che le piacerebbe rivedermi prima di tornare in Repubblica Ceca, mentendo le dico che la richiamerò. In realtà sto già pensando alla ragazza con cui uscirò domani, quell’ultimo numero conquistato. La tipa che ha risposto al quarto numero invece ha preferito non incontrarmi, certo ha usato parole meno diplomatiche, ma il concetto era quello.
IL giorno dopo l’appuntamento è a San Lorenzo. Lavoro fino a mezz’ora prima dell’orario stabilito ma riesco ad arrivare puntuale, curioso come da quasi un anno lavori solo a pranzo e quando inizio ad aver impegni la sera mi capitano turni pomeridiani. Mi fermo davanti al bar scelto per l’appuntamento e aspetto. Prima sigaretta, normale farsi aspettare penso. Seconda sigaretta più una birra, aspetterò altri cinque minuti e poi andrò via. Arriva una chiamata. E’ lei. Si scusa per il ritardo e mi chiede di andarle incontro. Finalmente arriva, ci incontriamo metà strada tra il bar e casa sua. Mi chiede di tornare indietro, verso il bar, la mia voglia di tirare dritto è tanta, ma dopo averla guardata bene, decido di rimanere, è una bella ragazza. Considerando il livello di alcool nel mio sangue quella sera al festival, mi è andata proprio bene: scura di carnagione, capelli castano scuri lunghi fin sopra le spalle, occhi grandi e marroni, un naso piccolo e all’insù sporge tra di loro, le guance sono un po’ paffute e se non fosse per quei denti enormi sarebbe quasi da catalogo, si chiama Francesca. Ordiniamo due negroni e ci sediamo su di uno. Le chiacchiere, le solite da primo appuntamento si accompagnano a milioni di sigarette, lei se le fa da sola, io fumo le mie lucky strike. La riaccompagno a casa, apre il portone del palazzo, un po’ d’ imbarazzo, baci sulla guancia, e poi la prendo per i fianchi, la stringo e la bacio come si deve. Risponde al bacio, poi si stacca mi guarda e dice:
“Minchia, nel portone di casa, come una quindicenne”.
Passano un paio di giorni, ancora non la richiamo, e lei neanche. Mentre chiacchieravamo quella sera, è saltato fuori che a breve partirà per un progetto in Romania, non uno scambio o un erasmus, ma un progetto no profit che non ho capito bene. Quello che invece è stato molto chiaro, il “No” secco riguardo la possibilità di continuare a vederci.
Un vero peccato, avrebbe potuto piacermi.
Passano ancora due settimane e finalmente ci risentiamo. Il periodo è quello delle fasi finali degli europei di calcio e c’è la semifinale dell’Italia contro la Germania, ci sarà un megaschermo a piazza del Popolo, dove c’è il fast food in cui lavoro e io sono di turno la sera, come al solito quando potrei avere da fare. Mi chiama proprio mentre sto uscendo da casa per andare a lavoro. Mi dice che si trova ancora a Roma, il progetto è stato bocciato, e che se mi va ancora, possiamo vederci. Appuntamento per quando avrò finito il turno, turno che si rivela un vero inferno. Cinque ore a servire fanatici urlanti con la faccia dipinta, due ore di radio della partita con urla e pogate immotivate ad ogni gol di Balotelli. Cazzo basta. Inizio a pensare di mettere la faccia nella friggitrice per porre fine a questo strazio. Fortunatamente però arrivano le undici, chiedo di staccare, il capoturno mi guarda e acconsente ma se voglio, posso rimanere per dare una mano, non fa in tempo a finire la frase che sono nello spogliatoio a cambiarmi.
Sono con i mezzi, la partita è finita, abbiamo vinto e attraversare Roma in quella situazione non è semplice. Mi ci vuole quasi un’ora ad arrivare a san Lorenzo e anche lì camminare per strada non è facile. Gruppi di gente urlante, improvvisate partite a calcetto tra le auto, gente ubriaca o peggio, per la strada che festeggia la vittoria dell’Italia. Mi siedo su di uno scalino, accendo una sigaretta e aspetto. La seconda sigaretta l’accompagno ad un birra, provo a chiamarla ma non risponde. Le scrivo un messaggio. Accendo la terza sigaretta e compro la seconda birra. La chiamo ancora, continua a non rispondere. Passa un’ora. Le scrivo un vaffanculo e me ne torno a casa.
Il ritorno a casa è drammatico. Starsene su un autobus notturno, rodendosi il fegato dopo aver preso una cantonata del genere, mentre fuori una città intera, anzi, una nazione festeggia, è qualcosa di veramente frustrante. Aggiungete a tutto questo la visione di una tua ex insieme al nuovo ragazzo sullo stesso notturno tornare a desiderare l’olio bollente che avvolge la tua testa non sembra così sbagliato.
Passano un paio di settimane, lavoro, uscite, ubriacature e nessuna altra ragazza. Un’ estate che sembrava partita alla grande inizia a cambiare faccia. Una sera però, mi arriva un messaggio:
“Ti devo una cena e delle scuse”.
E’ Francesca. Tenta un timido riavvicinamento. Mi lascio un paio d’ore per rispondere, alla fine le dico che ci sto. Sono curioso di sapere cosa ha da dire. Così mi ritrovo alle dieci di sera in macchina, per vederci sotto casa sua. La serata scorre veloce e tranquilla, ci trasferiamo a piedi da San Lorenzo al Pigneto. Passeggiamo, parliamo, ridiamo. Un paio di birre e tante sigarette. Mi spiega anche come rollarne una:
“E’ facile, prendi una filtro e lo metti tra le labbra. Prendi una cartina, la parte con la colla verso l’alto, poi la giusta dose di tabacco, dipende da quanto la vuoi forte, e con i pollici e gli indici fai andare la cartina su e giù, in modo da mettere il tabacco in posizione. Poi infili il filtro ad una delle estremità, rendi un angolo della cartina la incastri nel filtro e rolli. Finale, lecchi la colla, chiudi.”
Ci provo a farla, viene una cosa orrenda. Per il resto della sera fumo le mie. Dopo un paio d’ore ci ritroviamo su una panchina. Si ride ancora finché non la bacio. Rimaniamo seduti per altre due ore a baciarci e stare abbracciati.
“Come due quindicenni”, ripete lei.
La lascio sotto casa, ci baciamo ancora, e poi me ne torno a casa mia. Quella settimana ci vediamo altre due volte, la seconda è un molto simile alla prima, la terza è diversa. Salgo in casa da lei, mi fa accomodare sul divano, mi guarda e mi fa:
“Questa settimana torno in Sicilia per il matrimonio di mia sorella, ritorno a Roma tra due settimane.”
Bella botta. Adesso che iniziamo ad andare bene.
Il resto della serata la passiamo in giro per il quartiere in cerca di un posto che ci faccia una fotocopia, inutile dire che non riusciamo a trovarlo. Torniamo sotto casa sua. M’invita a dormire da lei. Solo a DORMIRE specifica. Accetto. Ci mettiamo a letto. Ci abbracciamo nonostante il caldo estivo, prima baci, poi iniziamo ad accarezzarci, a toccarci. Sale sopra di me, le tolgo la maglietta, mi guarda negli occhi e dice:
“Lo sai che se fai del sesso con me poi dovrai sposarmi?! Sono siciliana”.
La faccio scendere da sopra di me, mi libero e faccio per andarmene ma mi ferma e ride. Mi rimetto a letto e quel che succede dopo è abbastanza ovvio. Alle quattro e mezza, mi arriva una telefonata, Fabio, un mio amico, mi chiama disperato, deve arrivare all’aeroporto entro due ore e non ha il passaggio, bestemmiando mi alzo, mi rivesto la saluto e me ne vado.
Da quella sera, non la rivedo per due settimane. Mi richiama al suo ritorno a Roma. Ci vediamo come l’altra volta a casa sua, salgo, mi tiene fermo fuori la porta perché il pavimento è bagnato. Poi sorride, i suoi dentoni sono il saluto migliore. Grazie al caldo basta una sigaretta e il pavimento è praticabile, mi bacia mi fissa negli occhi e dice:
“Domani torno in Sicilia, in definitiva, almeno fino ad ottobre”.
Ma che cazzo, davvero?! Possibile che ogni volta che la vedo, mi dice che se ne va?!.
Passiamo la notte insieme, e anche il resto della giornata seguente, fino alla cinque, quando la accompagno all’appuntamento con il suo passaggio in auto.
I giorni passano, ci sentiamo per telefono, via skype e con ogni altro mezzo di comunicazione possibile. Poi mi si presenta un’ occasione. Grazie ad un paio di cambi turno mi ritrovo ad avere due giorni di riposo e un turno serale il terzo giorno. La chiamo e le dico che l’avrei raggiunta in Sicilia. Decido di partire di notte, paradossalmente il metodo migliore è l’autobus. Il bus partirà alle nove di sera, arrivo un po’ prima, compro qualche snack per il viaggio e attendo alla banchina. Preso posto la fortuna sembra dalla mia, non avrò passeggeri a fianco. Il bus fa per partire ma si ferma subito, ne sale una signora grassa e rumorosa, e quello di fianco a me è l’unico posto libero, la fortuna mi ha lasciato prima del tempo. Le prime ore del viaggio le passo guardando dei film al computer e qualche serie tv, una pausa all’autogrill mi permette di cenare e sgranchirmi le gambe. Quel che non mi è permesso è dormire, il russare della vicina di posto fa il lavoro sporco, allora mi rimetto a guardare film finché non si scarica la batteria del portatile, il resto del viaggio è noia e paesaggi fuori dal finestrino. Ci fermiamo per imbarcarci sul traghetto da Reggio Calabria alle quattro e mezza del mattino, faccio colazione sul ponte passeggeri con l’arancina più buona e unta mai mangiata prima. Può sembrare una banalità ma l’aria di mare mi fa scordare la nottata . Da Messina prendo il treno per Milazzo, dove trovo Francesca ad aspettarmi alla stazione, è assonnata, stanca, ma sorride nel vedermi arrivare e questo basta. Trascorrono veloci due giorni. Dormo in famiglia. Può sembrare razzista come cosa, ma non mi sarei mai aspettato che una donna sicula permettesse ad un ragazzo, di una altro posto, appena conosciuto di dormire con la figlia in casa. Si sta bene con Francesca. Andiamo al mare, usciamo la sera, andiamo ai concerti. Conosco la madre, la sorella, il cognato, la nipote e gli amici. Mi fa entrare fino in fondo nella sua famiglia, nella sua vita. La cosa mi spaventa mi fa stare bene. Le cose procedono in fretta ma è tutto molto naturale. La mattina della mia ripartenza, mi accompagna alla stazione e mi bacia prima di lasciarmi salire sul treno. Vado al mio posto, la guardo dal finestrino, ferma sulla banchina finché il treno non parte. Stavolta niente cambio mezzi, un solo treno. Partenza da Milazzo alle sette, arrivo alle cinque del pomeriggio a Roma Termini, poi lavorerò fino a mezzanotte. Una traversata assurda. Una notte in autobus, un giorno in treno, per stare con lei due giorni. Il viaggio è simile a quello del bestiame che va al macello: caldo e interminabile. Il che è un problema, perché ho tutto il tempo di pensare a questa relazione, sempre che lo sia.
Lei stessa non sa come definirla, le occasioni per vederci saranno poche, non ho esperienze dirette di relazioni a distanza, ma so che nessuna finisce mai bene. Dodici ore di pensieri dopo arrivo a Roma, con due ore di ritardo. Riesco ad arrivare a lavoro appena in tempo. Un turno non facile considerando la stanchezza accumulata. Torno a casa e svengo a letto. Il sonno dura poco perché grazie alla mia solita fortuna, il giorno dopo mi aspetta il turno dello scarico merci, il che significa attaccare alle sette di mattina e quindi svegliarmi alle cinque e mezza, in parole povere tre ore di sonno scarse. Le otto ore passano lente, molto lente, c’è poco da scaricare, poco da pulire e clienti al minimo, male. Ho troppo tempo per pensare. Solo una telefonata in serata di Francesca mi rialza il morale.
Il giorno seguente mi alzo tranquillo e fiducioso. Il turno di lavoro è anche è più leggero, per qualche motivo ho la convinzione che le cose si sistemeranno. Dopo lavoro mi chiama e tutta la fiducia e la speranza vengono spazzate via da quello che ha da dire: partirà. Per un altro progetto. Di sei mesi. Nel sud-est asiatico. Restiamo al telefono per più di un’ora, cerco di salvare una relazione mai veramente iniziata, tutto quello che ci guadagno è un “Se tra sei mesi, quando tornerò, entrambi saremo ancora single, potremmo ricominciare a vederci, non aspettarmi non voglio essere aspettata e non voglio godermi un esperienza a metà, la nostra non è mai stata una relazione vera e propria che valga la pena di essere vissuta a distanza”.
Chiudo la telefonata, mi siedo sulla prima panchina e ci resto per un po’.
Il giorno dopo me ne resto a casa. Turno di riposo. Il mio oziare sul divano è interrotto da una telefonata di mio fratello, m’invita al mare. Accetto. Mi porta in uno stabilimento a sud di Roma, gestito da un brasiliano, il primo caso di brasiliano partito dal suo paese per aprire un chiosco in una spiaggia italiana. Un paio d’ore sulla spiaggia a leggere, scandite da intervalli regolari di bagni rifrescanti. E’ l’ora del tramonto e dell’aperitivo. Ci sediamo al chiosco e ordiniamo dei mojito. Ce ne stiamo là, io e mio fratello Marco, mi giro una sigaretta. Poi mi dice:
“Sai Matteo, ogni relazione in cui siamo coinvolti è un passaggio, un pezzo di vita. La maggior parte di queste finiscono, l’importante è capire cosa ci è rimasto, e in base a questo sapremo quanto sia stata importate una relazione, te alla fine, hai imparato a rollare!”
“Uh.”
di Fabrizio Lucati All rights reserved