Non sono una fan di Virginia Wolf a cominciare dal fatto che scrivo anche mentre giro il risotto senza aver bisogno di una stanza tutta per me nella quale sviluppare ed esprimere la mia creatività. Ma concordo con lei sul fatto che se c’è un paradiso deve essere una grande biblioteca. E infatti sono stata e sono una lettrice vorace e onnivora, disordinata e passionale. Aiutata, da bambina, dal libero accesso alle grandi librerie che tappezzavano la vecchia casa e che erano a mia disposizione, senza “indici”, senza censure e senza proibizioni. Mi succede sempre meno frequentemente di innamorarmi di un libro, tanto da non riuscire a abbandonarlo e dolermi di aver finito di leggerlo. E non credo dipenda dal disincanto dell’età. Rifuggo da best seller e letture di moda, quelle imperative per non far brutta figura in società ed ero così anche da alunna dissipata e dispersiva: mi sottraevo ai testi sacri, quelli obbligatori e imposti dai programmi ministeriali, preferendo la scoperta, il riconoscimento e la sorpresa di un testo, una narrazione, di un incontro inatteso.
Mi perdonerete questa digressione personale, ma non essermi assoggettata a scuola e nel mondo al libro Cuore, al Piccolo Principe, alle fiabe di Rodari, a Siddharta di Hesse, ma anche a Erica Yong o a Betty Friedan, credo abbia favorito l’osservanza di un imperativo per me irrinunciabile, quella laicità che non vorrei mai disgiungere dall’eterna triade: uguaglianza, solidarietà, libertà. Sarà grazie a questo che guardo con il medesimo raccapriccio a visioni oscurantiste, alle loro campagne, alle loro sentinelle in piedi o distese, ai loro onorevoli pokeristi o ai loro Moccia della filosofia, ai loro sindaci inquisitori: i gay sono malati, battiamoci contro le aggressioni omosessualiste nelle scuole, promuoviamo « Feste delle Famiglie Naturali, fondate sull’unione tra un uomo e una donna», le uniche vere famiglie, ai babbi baciapile in parrocchia e consumatori in trasferta di turismo sessuale, agli elettori devoti anche di utilizzatori finali. Almeno quanto alla pedissequa adozione nelle scuole di sciagurate linee guida dell’Oms, coi lucidi per la corretta masturbazione, attrezzatura ginecologica, nell’ipotesi di un diligente e per nulla ludico trasferimento pubblico in classe del gioco del dottore, della scoperta solitaria e più o meno consapevole o precoce della propria sessualità.
È che l’appartenenza alla schiera degli imbecilli è esercizio bipartisan. Nel primo caso scontiamo l’ingerenza mai sopita della chiesa, anzi ridestata in tempi di crisi delle vocazioni e della religiosità, l’imposizione di principi confessionali proposti come un’etica pubblica tenuta ad influenzare anche scienze naturali, biologia, eugenetica, oltre alla giurisprudenza, sempre più condizionata da influenze più privatististiche e di mercato che religiose. Senza contare che forse dobbiamo riconoscere come carattere presente nella nostra autobiografia nazionale, una certa indole all’ipocrisia, ben rappresentata da esponenti di una classe dirigente osservanti, virtuosi e praticanti in pubblico, quanto trasgressivi, adulteri e puttanieri in privato, salvo qualche eccezione di leader in grado di mescolare sapientemente i due contesti.
Nel secondo caso, voglio pensare che si tratti di volonterose quanto ottuse degenerazioni di intenti “missionari”, di una malintesa vocazione pedagogica, quella dell’”educare al genere”, realizzata con l’impeto pionieristico di chi sposa, con una causa, anche mode e modi anticonformisti e quindi vissuti come una promozione sociale e l’approdo nei lidi esclusivi dello “snobismo di massa”. E non voglio credere per radicato fastidio nel confronti della dietrologia, che si tratti dell’impiego calcolato e dell’esasperazione di messaggi per alimentare diffidenza, ostracismo nei confronti di chi è “diverso”, in modo da orientare opinioni e magari indirizzare i genitori verso situazioni più “protette” moralmente, più tradizionaliste, più accettabili, meno “politicizzate”, come se la scuola privata, cattolica o no, non fosse manifestamente schierata e partigiana.
Si in ambedue i casi mi sembra un proselitismo comunque autoritario, irrispettoso e sopraffattore, degli uni che guardano ai cittadini come a bambini da indottrinare, dei secondi che attuano sui bambini veri una prevaricazione ed una coercizione irriguardosa dei loro diritti e della loro dignità, che c’è eccome anche se di taglia small.
Ma l’aspetto più paradossale è che si tratta di una battaglia ideologica senza ideologia, con poche idee e molti pregiudizi. La teoria gender infatti non esiste, nessuno studioso in ambito accademico l’ha elaborata, né tantomeno divulgata. A cominciare a parlarne come di un impianto dottrinale e speculativo, tra la fine degli anni ’90 e il 2000, fu invece il Pontificio consiglio per la famiglia prendendo spunto da alcuni documenti discussi e approvati nel corso della Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo e della Conferenza mondiale sulle donne (ambedue promosse dall’ONU). Ma il definitivo ostracismo fu inflitto, tramite alcune voci del dizionario enciclopedico Lexicon, redatto sotto l’egida del Pontificio Consiglio per la Famiglia, poi in interventi di saggisti vicini all’Opus Dei o attivi nell’ambito dell’associazionismo « pro-vita » e sostenitore delle « terapie riparative » dell’omosessualità, con l’intento di etichettare e distorcere i contenuti di alcuni studi nati dalla cultura femminista americana, colpevoli di voler scardinare l’ordine costituito fondato sul dualismo sessuale maschio/femmina e quindi di metterne in discussione gli effetti ormai culturalmente e socialmente radicati, legati e condizionati da differenze “naturali” e da un supposto destino biologico: superiorità e inferiorità, forza e debolezza, gregarietà e subordinazione, in famiglia e nella società, legittimando non solo disparità tra uomini e donne, ma sottintendendo il disconoscimento del pari diritto di cittadinanza ai non eterosessuali, che qualcuno ha definito “minoritari sessuali”.
Nella marmellata propagandistica che se ne è fatta, principi fondamentali dettati dall’istanza di combattere le discriminazioni basate sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale sono diventate un’emergenza, un pericolo per le famiglie e per le generazioni a venire, perché in realtà nascondono “l’equiparazione di ogni forma di unione e di famiglia e la normalizzazione di quasi ogni comportamento sessuale”, insomma il riconoscimento a pari merito di vincoli non sanciti dal sacramento del matrimonio, ancorché basati sull’amore, l’affetto, la solidarietà, come della dignità e delle prerogative di tutti i cittadini quale che sia il loro orientamento sessuale, malgrado si tratti di valori approvati in ogni sede nella quale si parli di diritti fondamentali: Corte dei diritti dell’uomo, Onu, Unesco. E perfino nell’Europarlamento, sia pure con qualche compromesso di natura strettamente partitica.
A dimostrazione di quanto faccia ancora paura (ne ho già parlato qui: https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/06/25/razzisti-di-gender/), di quanto sia destabilizzante per quell’ordine costituito, che ci si interroghi sui modi, le suggestioni, gli obblighi con i quali la società, o meglio i poteri che la governano, ha interpretato e alimentato le differenze tra maschi e femmine, ratificando e imponendo, con un feroce determinismo, disparità tra uomini e donne, tra eterosessuali e omosessuali, configurando altre disuguaglianze interne e aggiuntive a quelle di classe, sancendo così che sesso e censo bastino a definire quello che siamo e perfino quello che vorremmo essere. Perché se il sesso alla nascita ci colloca nelle categorie di femmine e maschi, il genere invece è un edificio, una costruzione socio culturale nella quale abitiamo e alle cui regole, non sempre armoniosamente e felicemente siamo chiamati ad adeguarci.
Si capisce allora perché contrastare stereotipi e luoghi comuni, che hanno finito per determinare opportunità e decidere destini diversi fin dalla nascita, fin dal fiocco sulla porta, nei paesi dove non ci sono fiocchi e nemmeno porte come da noi, riconoscere uguale cittadinanza ai diversi modi di essere donna e uomini fa paura perché è un altro modo per parlare di libertà, di democrazia, di uguaglianza laddove tutto congiura nella società a incrementare gerarchie, disparità, a convertire i diritti in elargizioni e favori e la felicità in un monopolio di chi possiede e vuole possedere sempre di più, ammesso che l’avidità non ne impedisca il godimento, come c’è da augurarsi.
Si non mi piacciono i nuovi Kraff Ebing pronti a sperimentare terapie per ricondurre allo stato naturale e quindi alla norma omosessuali, ma non mi piace nemmeno la dizione “educare al genere”, compresa della paccottiglia da Master e Johnson ad uso delle scuole, che ispira alcune iniziative che vorrebbero dopo i Lupi Alberto, i fumetti post cavoli e cicogne, condurre più spericolate campagne di educazione sessuale. Perché non conosco bambini razzisti e nemmeno omofobi, abituati come sono a ambientare i loro giochi in un mondo complesso, animato, vario per lingue, colori, cibi, segni della croce e ramadan. Succede che lo diventino dopo, proprio grazie a quei condizionamenti che persuadono al genere, al conformismo, all’accettazione delle convenzioni e al rifiuto di chi le rifiuta. Se proprio si deve educare, sarà meglio farlo con l’esempio, sarà meglio cominciare dai genitori, da chi li informa, da chi li governa per nomina e incarico e non per condotta autorevole ed esemplare, da chi fa dell’intolleranza un brand che assicura il successo politico.