L'idea di base, e che appartiene alla storia delle discipline psicologiche e comportamentali, è che l'alternanza degli stati di felicità e infelicità sia funzionale all'alternanza metabolica. Per esempio, non so voi, ma io, quando dormo, sono felice. A meno che non abbia degli incubi, la qual cosa mi rende infelice. Lo stato di incoscienza che accompagna il sonno è definibile incoscienza solo in relazione alla definizione che noi diamo dello stato di veglia, che è appunto di coscienza. In realtà possiamo benissimo immaginarlo come uno stato di coscienza diverso da quello normalmente sperimentato con la veglia. L'aspetto particolare, secondo me, è appunto questo: lo stato di sonno è uno stato di felicità, e infatti l'organismo tende a perdurare in quello stato finchè non intervengono fattori che lo modificano.
Per ottenere tutto quello che ci serve per vivere dobbiamo andare a prenderlo, perchè non viene da solo verso di noi. Per andarlo a prendere dobbiamo sapere che dobbiamo andarlo a prendere. Come faccio a sapere che devo mangiare? Oppure bere? Per questo motivo esistono fame e sete.
Faccio un piccolo excursus. Tempo fa mi ero ripromesso di fare una ricerca su tutti i fattori che regolano l'appetito negli umani. Il sistema è piuttosto complesso. Non esiste un solo meccanismo. Direi invece che si è usata quella che gli ingegneri chiamano ridondanza. Molti fattori sono coinvolti nelle sensazioni di fame e sete, nella loro estinzione e nella loro insorgenza, alcuni collegati tra loro altri no. La natura, nella sua saggezza, ha previsto una strategia a molte soluzioni, perchè mangiare e bere sono due comportamenti di vitale importanza.
In realtà possiamo anche affermare che un qualsiasi stato di infelicità contiene -in nuce- entro di sè, anche quello di felicità perchè, il più delle volte, la felicità sta nel percorso per raggiungerla più che nel raggiungimento stesso. Ovvio che quando si raggiunge un traguardo non è che si smette istantaneamente di essere felici e si piomba nella disperazione. Noi siamo in grado di mantenere per un certo tempo lo stato di felicità raggiunto, a patto che lo confrontiamo costantemente con gli stati precedenti. Abbiamo sempre bisogno di paragonare una situazione che stiamo vivendo con qualcosa di passato (o di futuro), per sapere esattamente quale sia il suo livello di felicità, e anche per esaltarne l'intensità.
L'infelicità è uno stimolo ad agire. E' accompagnata da modifiche dell'assetto biochimico dell'individuo che servono a convincere l'organismo a muoversi e in più gli forniscono anche il bersaglio cui puntare. Un animale che non può eseguire la propria routine di scavo in una gabbia devia su un movimento stereotipato incessante, pur di soddisfare la sua infelicità. L'infelicità è un pungolo ad agire. Muoversi e poter fare quello che si vuole è la cosa più bella. La natura premia questo stato rendendoci infelici (umani e animali) quando non possiamo muoverci, soprattutto se siamo costretti da qualcun altro.Non poterci muovere genera infelicità. L'infelicità aumenta la produzione di mediatori biochimici del movimento. E allora ci muoviamo, agiamo. In quel frangente di tempo in cui noi passiamo dal non poter fare una cosa al poterla fare, noi siamo felici, ma non è che continuando a farla noi perpetuiamo lo stato di felicità.
Anche se è vero che chi è triste rievoca più facilmente ricordi spiacevoli e, al contrario, chi è allegro ricorda più facilmente memorie piacevoli [Teasdale et al. 1980] [Ehrlichman e Halpern 1988] sembra pure vero che l'autoriflessione prepara il soggetto, quando si lascia trasportare dai pensieri ovvero vagabonda con la mente, a pensare più al proprio futuro che al proprio passato [Smallwood et al. 2011 in press] e questo ha a che fare, secondo me, con il tratto di insoddisfazione della vita attuale, del momento che si sta vivendo e i pensieri sul futuro sono un atto in progress, servono cioè a moderare l'infelicità attuale con un atto potenziale da compiersi nel futuro, ma che si compie al momento solo con il pensiero.
Perchè dovremmo essere infelici al momento attuale? Probabilmente, se non abbiamo traguardi da raggiungere, compiti da completare, se non aspettiamo con desiderio un incontro o un evento siamo portati a valutare le nostre giornate come più tristi di quel che sono, perchè ci manca un punto di riferimento.
Ricordo sempre con piacere la battuta di Ennio Flaiano: "la felicità è mettersi un paio di scarpe strette per il piacere di togliersele" (citato a memoria). E non è andato lontano dalla verità, a parer mio.
Quando ci capita di essere in contrasto verbale con qualcuno, se riusciamo ad averla vinta, o con il ragionamento o zittendo l'altro con il nostro chiacchiericcio, noi otteniamo una dose di felicità. Ho come la sensazione che l'inesatta percezione della nostra felicità corrente sia il pungolo per la ricerca di quella infelicità che può essere trasformata in felicità.
Anche la noia è una misura dell'infelicità. E anche la ricerca della conoscenza obbedisce a questo stesso meccanismo: comprendere le cose è appagante di per sè, quando cessa di essere appagante di per sè diventa appagante se si ottiene il riconoscimento generale, e poi via si ricomincia. Insomma la felicità è la nostra condanna: condannati ad essere felici, ma l'infelicità è ciò che cerchiamo. La cerchiamo perchè è solo da uno stato di infelicità che noi possiamo aspirare ad uno di felicità. E la cerchiamo perchè la felicità, di per sè, probabilmente non esiste. Mettete l'uomo più ricco e potente del mondo da solo in un'isola deserta sotto il sole e senza niente da mangiare o bere. A che gli servono tutti i suoi soldi e tutto il suo potere?
E come sarà felice, dopo un giorno o due di digiuno completo, quando gli porterete un tozzo di pane e un bicchiere d'acqua calda.