All'inizio sembrava una storia qualunque, quella di due giovani amiche, Silvia e Elena, poco più che ventenni, che si scambiano i fidanzati. Sembrava una storia come tante altre, con loro due che, prima di mandare a monte l'una la storia più o meno d'amore dell'altra, sognano di aprire un locale tutto loro, un giorno, insieme a Fabio, l'amico gay. Tredici anni dopo quel locale esiste davvero, è di Elena e Fabio, che sono cresciuti, ma si vogliono sempre bene come allora e hanno ancora dei sogni nel cassetto. Elena è ormai sposata con quel bell'Antonio che ha rubato a Silvia un decennio e oltre prima. Hanno due figli e un sentimento che non sembra esistere più. Lei lavora giorno e notte e lui è sempre il solito sciupafemmine. Quello che la gente pensa di loro l'ho pensato anch'io: Elena è decisamente troppo per quell'ignorante razzista donnaiolo di Antonio. È una realtà, la loro, comune chissà a quante famiglie. Restano insieme per finta, per abitudine, per comodità, per i figli. C'è una donna che fa da madre e da padre e un padre che è restato quel ragazzino tatuato che era un tempo, solo con la pancia al posto della tartaruga da palestrato. Poi, ecco la svolta. Elena scopre di essere malata: cancro al seno. Inoperabile. Da far regredire con le terapie. I sogni si mettono in pausa. Antonio scappa. I capelli cadono. La nausea. L'ospedale. La compagna di stanza che diventa amica e che poi muore. L'amore che ritorna, forse.
Per questo ho pianto.
Per quella giovane donna/madre/moglie/imprenditrice che all'improvviso vede calare il sipario sulla propria vita che sarebbe dovuta essere molto più lunga di così.
Perché Elena l'ho conosciuta, le ho voluto bene, le ho sorriso e le ho parlato al futuro, fingendo.
Non importa se il film ci ha risparmiato i giorni più brutti, quelli senza dignità, io so che ci saranno nella vita di Elena dopo i titoli di coda.
Forse ho pianto anche per quello che non ho visto, ma solo immaginato.
Che ne sarà di quella famiglia, che ne sarà di quei bambini? La vita è così cattiva, certe volte.