Il nastro delle mura urbane si snodava senza apparente rapporto con le macchine lungo la circonvallazione, per le quali linee simili e urgenze diverse provocavano arresti e stridori. L'asfalto esalava umido. E in questa nebbia, nelle mura poco distanti, si apriva una ferita.
Era come un'ogiva dai nervi pallidi, quasi carnosi, di pietra panchina. Là dentro cosa c'era? Era forse un prato? Ma era così remoto, come fosse un mondo. Dal margine postremo dell'arco forse era l'inizio di un sentiero, ma era un principio complesso, come quello di un corpo, di una progressione in musica, come la promessa di un continente.
Oh sì, qualcosa si conservava intatto.
Ed io? Avrei potuto vederlo?
Cosa avrei trovato?
Ci sarebbero stati lo stesso fiumi, e mari, ed animali, di là?
Ed era per una tutela sacra che qualcuno aveva posto un cancello all'apertura di quella ferita?
Abbassai il finestrino e nei miei polmoni si moltiplicarono i frutti di quella visione. Come un respiro di canto, come poco prima di correre.
Sarebbe bastato dire: <Ferma!> e scappare laggiù.
Ma una vergogna adulta mi impedì di chiudere il palmo sulla maniglia e mi restituì a me stessa e alle mie maledizioni.