Libri che spesso sono destabilizzanti, libri ai quali torni quasi tuo malgrado: come se avessero da dirti qualcosa forse non troppo piacevole ma di certo importante, qualcosa che in ogni caso vale la pena assicurarsi di aver capito bene.
Può così capitare che in un gelido mattino di metà dicembre, mentre sei seduto in un tram dai vetri appannati che ti sta portando al lavoro, il pensiero vada per conto suo a una lettura fatta in estate, in vacanza, in Polonia: Allodola, dello scrittore ungherese Dezso Kosztolanyi.
Vissuto tra il 1885 e il 1936, Kosztolanyi è una figura di spicco della letteratura ungherese del secolo scorso. Assai apprezzato in patria sia per la produzione poetica che per quella in prosa, ebbe anche il merito di tradurre in ungherese numerosi testi teatrali sia della grande tradizione classica (Shakespeare su tutti) sia della migliore produzione a lui contemporanea (tradusse e fu un appassionato paladino di Pirandello). Ebbe anche notevole influenza sulle successive generazioni di letterati ungheresi, e tra i suoi più ferventi ammiratori c'era Sandor Marai, diventato negli ultimi anni uno dei più solidi best sellers della benemerita Adelphi.
La trama di Allodola è - esteriormente - abbastanza lineare: è la storia ambientata a Sarszeg, cittadina immaginaria della provincia ungherese, di una settimana nella vita dei coniugi Vajkay e precisamente della settimana che trascorrono da soli mentre la loro unica figlia (soprannominata per l'appunto Allodola) è ospite presso dei parenti che risiedono altrove. Quella di Allodola è una famiglia esemplare, una di quelle in cui le relazioni tra i componenti sono tutte una gara di delicatezze, tutte un'unica sequenza di tiepide cure, di fini manifestazioni d'affetto, di minute attenzioni.
In realtà scopriremo ben presto che questa settimana di sospensione da una routine che sembra immutabile, compenetrata finanche negli oggetti di casa Vajkay, è l'abbrivio di un pericolosissimo piano inclinato. E' l'orlo di un abisso nel quale le certezze interiori dei tranquilli coniugi Vajkay si sgretoleranno una dopo l'altra.
Con la ferocia e la precisione di un serial killer non digiuno di chirurgia, Kosztolanyi scarnifica la placida, zuccherosa realtà dei suoi personaggi facendocene constatare i risvolti di ipocrisia, di avarizia, di grettezza, perfino di puro e semplice odio. E' un viaggio che parte da The sound of music e arriva a Sussurri e grida.
E quando la settimana (circolarmente scandita dal pianto dei genitori alla partenza del treno e da quello di Allodola nel suo letto al ritorno) termina, sappiamo che l'esteriorità tornerà implacabilmente com'era ma nessuno dei protagonisti sarà più quello di prima.
Si respira in queste pagine una lucida assenza di illusioni, una volontà ostinata di demistificazione delle piccole e grandi ipocrisie della vita borghese di provincia, una valutazione spietata del prezzo di dolore e di infelicità tributato sull'altare del decoro.
Eppure Allodola non è un libro disperato, né disperante.
Non lo è per virtù d'arte, non lo è per merito della scrittura di Kosztolanyi che è di una perfezione da farti venir voglia di imparare l'ungherese non foss'altro che per poter leggere libri come questo in originale.
E' una scrittura palpitante di vita, che indugia con adesione e simpatia su ogni manifestazione dell'esistenza, dalle galline che razzolano per le strade al sapore dei piatti serviti nel ristorante in cui i Vajkay si concedono un pranzo.
Si legge in un paio d'ore questo libretto, e sono due ore che vale la pena di spendere. E' bello guardare dal finestrino di un tram milanese e avere la sensazione che dalla nebbia emerga il frontone di qualche casa di Sarszeg.