Secondo me, dopo che si è finito la stesura di racconti o di un romanzo, occorre lasciar trascorrere tre mesi. O forse anche sei. Solo in questa maniera si ricreano le condizioni necessarie per tornare a leggere quello che si è prodotto con il giusto distacco.
Succede infatti che molti dettagli si confondono, forse una patina di dimenticanza si deposita sullo scritto. Per questo motivo la lettura sarà effettuata con rinnovata attenzione, come se fosse la prima volta; e allora si ricomincia a vedere i difetti, i refusi.
Non c’è niente da fare. Se continuiamo a rileggere, se non diamo riposo allo scritto, altri fattori entrano in campo e inquinano la visuale. La testa bada a certe cose, e tralascia altre. Forse addirittura insegue la propria storia, e non quella sulla pagina. È sovreccitata per la fatica, l’impegno, insegue la coerenza dell’intreccio e non riesce a individuare un “ma però” nemmeno se fosse un neon lampeggiante stile Las Vegas.
Ci sarà sempre bisogno di un paio di occhi estranei, questo mi pare ovvio. Ma tre mesi lontani dal testo, possono essere di un’utilità incredibile. All’improvviso, ecco una parola ripetuta a distanza di appena tre frasi. Eccone un’altra, dentro un dialogo.
Questo passaggio può essere più chiaro se aggiungiamo una parolina.
Non è un problema stare distante da un testo. Basta fare dell’altro. Leggere, scrivere, lavorare. Di solito si presume che il mondo sia lì in attesa della nostra parola: non è così. Se ne infischia, con cordialità, ma se ne infischia. Continuerà a girare con o senza le nostre storie.
Aggiungo questo.
In realtà, se ti tornasse dopo nove mesi sul testo, magari ripassato da un editor, noi troveremmo ancora qualcosa che non funziona. Forse per questa ragione certi scrittori evitano di leggere il loro libro?
Lo riscriveremmo in maniera differente. Perché in quei nove mesi abbiamo letto, imparato e vissuto. Siamo cambiati.
Viene però il momento di separarsi dalla creatura di carta (digitale), e pensare ad altro.