Da migliaia di anni centinaia di generazioni di uomini hanno vissuto sulle pendici occidentali dei monti Hajar, la spina dorsale dell'Oman. Cacciatori e contadini della penisola Arabica che si sono insediati qui, arrivati risalendo i ripidi torrenti effimeri alla ricerca di dolci fonti, fresche sorgenti e calme pozze d'acqua tra le grandi pietre rotonde dei wadi. Laggiù in basso i beduini del deserto conducevano la loro vita di commercianti e carovanieri, sopravvivevano con le loro greggi di capre e cammelli in costante movimento a inseguire le risorse nascoste nel deserto. Ancora più in là, nei villaggi lungo la costa che sarebbero un giorno diventati grandi città, le comunità di pescatori e commercianti Arabi e Iraniani non conducevano a quel tempo un'esistenza molto migliore sulle rive di quel mare basso, tiepido e salato. In mezzo a queste montagne i giorni si susseguivano da sempre uguali, a raccontare una storia di dura sopravvivenza, aggrappati a flebili rivoli di un liquido prezioso, minuziosamente convogliati nelle aflaj che regalano alle oasi piccoli datteri, miseri covoni di erbe di palude e scarsi mazzetti colorati di verdure. Oppure vite scavate nell'argilla fragile di questi altipiani a cui strappavano i minerali da fondere in quel rame primitivo che modellato e decorato in piccoli monili veniva scambiato con le carovane di passaggio e i marinai che lo portavano lontano per i paralleli della terra, giù fino a Zanzibar.
Tutte le comunità delle pendici occidentali dei monti Hajar tra il Wadi Jizzi e il Wadi Sharm, da Khutwah a Jazira, da Aboul a Khabbayn, fno a Musah, Sharam e A'Dahir, occupavano un territorio di non più di una cinquantina di chilometri, nel territorio dell tribù Ka'abi. La nostra storia comincia da Khutwah che ancora oggi è un minuscolo villaggio con una comunità che vive di una piccola oasi sulla parete sud di una montagna come tante altre in queste terre di confine tra Emirati Arabi e Oman. Poche case di argilla aggrappate a una striscia stretta di terra e minuscoli campi a terrazza costruiti con i sassi di questa pianura alluvionale erosa dai secoli. Sul crinale sopra il villaggio un sistema di piccoli canali nutrito da un ruscello di montagna porta la preziosa acqua per qualche centinaio di metri fino a un bacino di riserva attorno al quale una decina di case e una moschea sono state costruite con i sassi e col fango delle pendici della montagna. Dietro alle case e sotto il bacino, i contadini coltivava minuscoli terreni sulle terrazze che serpeggiavano sul costone dove il canyon piega verso sud-ovest. Fino a pochi anni fa questa era ancora una comunità isolata dal resto del mondo, senza corrente elettrica ne' telefono e nessun mezzo di trasporto era in grado di attraversare il profondo burrone, oggi un ponte per quanto insicuro e instabile permette l'accesso ai pick-up dei degli operai Indiani fino ai primi terreni dell'oasi. La parte più interna delle coltivazioni però rimane ancora accessibile solo a piedi o per una capra o un asino. In fondo sta ancora una piccola teleferica abbandonata che in passato era servita per trasferire le merci dalla montagna al villaggio. Sotto si apre uno strapiombo di una trentina di metri per un'altra ventina in larghezza che curva a seguire il letto secco del torrente e dà la sua forma al villaggio che prosegue fino alla moschea. Il wadi separa il mondo dei vivi da quello dei morti: dalla parte opposta al villaggio l'altopiano sassoso mostra poche tracce di vita umana, alcune montagnole di pietre stanno a testimoniare qualche occupazione remota ma la maggior parte della piana pietrosa non è altro che una terra arida del colore scuro del deserto. Una serie di vallette laterali la dividono in sezioni quasi regolari, esattamente di fronte al villaggio, dall'altra parte del burrone, stanno una quindicina di tombe ricoperte da cerchi di aloe vera. La sola pianta che cresce tra questi sassi e in questa terra che fu scavata e rivoltata in chissà quale tempo passato. Sono sepolture semplici secondo l'usanza Islamica, tutte simili e probabilmente tutte all'incirca dello stesso periodo, un ovale di pietre che definisce l'area e delle larghe pietre piatte più o meno rettangolari ai vertici, due per gli uomini e tre per le donne. I cumuli sono abbandonati da tempo, lunghi poco più di un metro e mezzo fanno ritenere che lì sotto devono essere seppelliti uomini e donne dal fisico minuto e dalle ossa strette, tratti tipici delle tribù che hanno da sempre abitato questi luoghi. L'aloe in Arabo è detto sabar, che significa pazienza e quelle piante vegliano sui tumuli pazienti, secche ma al tempo stesso viventi compiono il miracolo della risurrezione di quegli uomini e quelle donne che tornano alla vita nelle loro radici poco profonde. L'aloe cresce spontaneamente in una sorta di magico cerchio, il fusto originario si espande verso l'esterno per la combinazione di spargimento dei semi e propagazione delle radici, con il passar del tempo il centro muore lasciando un cerchio di nuove foglie a circondare i resti secchi della pianta originale. E quello che sopravvive è al tempo stesso la prima pianta e un'altra nuova, la morta e la sue reincarnazione. L'aloe è originario dell'Africa Orientale ed è probabilmente arrivato fin quassù portata dalle carovane dei commercianti o dalle navi dei pescatori o dai cammelli dei beduini o ancora da altri esseri viventi meno umani e più soprannaturali come i jinz o i mari e i venti. Nell'antico Egitto era la pianta dell'immortalità, si narra che di aloe fossero circondate le piramidi e piante di aloe crescessero fossero disseminate lungo le strade della Valle dei Re: quando le piante fiorivano era il segnale che il faraone morto era giunto a destinazione, nell'Altro Regno. Secondo altre leggende che parlano di altri dei e portano altri nomi, fu di aloe che Nicodemo unse il corpo di Gesù dopo la crocifissione. Quanto a me, la sola cosa che posso dirvi è che ovunque si incontri aloe tra queste montagne brulle e ormai disabitate significa che, una volta, qui, uomini e donne sono nati, vissuti, morti e qui sono sepolti, non ancora completamente dimenticati.
Nello scorrere lento dei loro secoli, le tribù dei monti Hajar incontrarono uomini di paesi lontani. I primi furono gli schiavi Africani, arrivati fin lassù per un commercio di umani che per lunghi secoli fece profondamente parte della cultura e del modo di vita di questa penisola fatta di predoni e di deserti. Poi approdarono strani indigeni delle isole nell'Oceano Indiano, uomini che avevano navigato sui dhow che tornavano dai commerci di rame sulle coste orientali dell'Africa, dallo Yemen, da Socotra, giù fino a Zanzibar. In tempi ancora più recenti, sono arrivati gli operai Indiani, gli unici disposti venuti fin quassù per scelta, partiti dal Bangladesh o dal Pakistan alla ricerca di un lavoro, un salario e una vita isolata nelle oasi di montagna. Infine, dopo circa settemila anni, siamo arrivati noi, viaggiatori turisti curiosi, con una valigia preconfezionata di giudizi e conoscenze. Fina dalla prima volta che sono salito fino a queste montagne, che ho osservato queste persone, ho avuto l'impressione che appartenessero a un altro mondo, un mondo a parte per il quale il nostro non aveva alcun senso. Quassù dove da secoli la vita è tracciata dalla siccità e dalla pioggia, dai raccolti e dalle inondazioni, dall'erba e di tabacco, dal rame e dalle carovane, dagli attacchi dei predoni, dalla fame e dalle malattie. Eventi che sono sempre stati e che per loro sarebbero stati sempre, che a volte si prendevano le case, gli animali e le persone e se li portavano via. Noi arrivavamo da lontano, come faraoni passati dall'altra parte del mondo, dall'altra faccia della luna, eravamo lontani, lontani come il cielo, parlavamo una lingua diversa che non c'era nessuna ragione per doverla o per volerla capire. Eppure quando ci si incontrava per qualche sentiero di capre e di sassi, tra le erbe in fondo a un wadi o davanti a un caffé e un dattero nelle oasi, non mancava mai il tempo per salutarsi, per informarsi.
"Salam aleikum""Wa aleikum assalaam" "Keyf-alek"?"Hamdulillah".
Si informavano, chiedevano chi fossimo, come andasse e se avessimo bisogno di qualcosa, poi riprendevano il loro viaggio con un sorriso. Questa fraternità tra gli uomini in queste montagne è un legame naturale, un sentimento profondo e comune tra i viaggiatori e i beduini. Quassù è chiaro che niente al mondo è individuale, su queste cime aride si realizza chiaramente, si percepisce quasi fisicamente come tutto sia interconnesso e le sue influenze e reciproche dipendenze. Le loro storie raccontano da sempre come non esistano limiti che non possano essere valicati da influssi spirituali, diventati poi magici e ancor più tardi religiosi, questi popoli vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, non si distinguono dal deserto che li circonda, dai raggi del sole che li colpiscono, dai loro cammelli, dalle capre, dalle malattie. Esiste solo la vita ed è di una natura aspra e maestosa. Generazioni di uomini e donne sono vissuti qui, in un mondo che ancora oggi non si esprime con scritture, ma ripete storie, parole, gesti quotidiani che si portano dentro di loro tutto il susseguirsi delle loro vite che si stendono uguali da millenni. Era come se non vedessero quello che stava succedendo intorno, sulla quella costa che distava solo poche decine di chilometri, come se fossero suoni che venivano da là in fondo, da troppo lontano. Venivano da città facili, fatte di attività e di progresso, di posti e di gente che aveva dimenticato la vita, i racconti, le storie, la storia millenaria del mondo. Li aveva a tal punto da evocarli ormai solo per scherzo, con la leggerezza di chi non ci crede. Qui, gli dei delle città, quelli dell'economia e delle sviluppo non possono aver culto, tra queste rocce e queste case dove regnano il vento e il sole, dove nelle notti di luna crescente volano i jinz, dove vale la legge del sangue scritta dal khanjar e dal fucile. Non c'è alcun muro, alcuna autostrada, alcuna rete di protezione che separa il mondo degli uomini da quello dei sassi, degli spiriti, degli animali, dal mondo dello scorpione e del lupo, dalle fronde secche dei ghaf e dalle oscure acque fossili sotterranee che vanno a cercare con le loro profonde radici.
In questo senso dunque mi sono sentito anche io uno tra loro, semplicemente un uomo. Non importano i motivi che mi avevano spinto fin lassù, non c'era ragione, non esiste causa ed effetto ma solo avvenimenti e cose. Quando stavo qui tra loro, le cose che mi stavano più a cuore durante la settimana apparivano a un tratto lontane, come appartenessero ad altri tempi, seguissero altri ritmi, obbedissero altre leggi. Questi due mondi erano incomunicabili, queste due civiltà non potevano avere tra loro alcun rapporto se non attraverso qualcosa di soprannaturale e miracoloso. La storia che sto per raccontarvi si svolge nel deserto più deserto della terra, parla di bastimenti carichi di perle sulle rotte del Golfo, di un vecchio con un dente solo e della sua consapevolezza biblica, del ricordo sospirato delle vertigini nei wadi che si stanno trasformando rapidamente in grattacieli e hotel di lusso. E' un racconto che parla di Arabi, di Islam, di uomini, di spiriti e di tanto altro ancora.
Questo breve incipit è ispirato da un lavoro scientifico dal titolo "A discussion of funerary customs, notably the placement of Aloe vera plants on graves" di Brien Holmes. Ho avuto l'onore di conoscere Bien nei miei anni arabi, con lui e con altri come lui ho condiviso giornate indimenticabili tra le piste selvagge dei monti Hajar. Di Brien è anche la fotografia in testa, che ritrae il mausoleo di Mohammed bin Ali vicino a Birkat in Oman e il piccolo cimitero che lo circonda . Questo scritto, come altri precedenti, è dedicato ai miei amici a Dubai con gratitudine e riconoscenza per quanto - anche senza saperlo - mi hanno insegnato e ispirato.