Nel momento in cui incontri per strada lo sconosciuto, incrociando il suo sguardo, senti di ripercorrere un ricordo essenziale della tua umana costituzione; un irreprensibile impeto alla prodeuticità del vivere insieme ti attraversa e non si ferma.
"Non ci riconosciamo", "non ti conosco". Non rappresentiamo, reciprocamente. Eppure, anche solo per un attimo, quello sconosciuto svolge un compito importante, perché sostiene, con la sua presenza, l'importanza di essere l'altro, per tutti.
Lo statuto dell'altro è, imprescindibilmente, l'unico fermento costitutivo dell'uomo.
Se solo minimamente ci accostiamo, viviamo, l'un per l'altro, nella concomitanza di espressioni vitali: ripercorriamo così le nostre reciproche presenze, in attesa di donarci l'uno all'altro. Allora, scaraventati in questo mondo, non ha senso la solitudine delle anime se non sotto forma di una resistenza inutile ad una forma primordiale di magnetismo sociale.
Disgiunto dal nostro volto, lo sguardo ri-conosce da subito, con la disinvoltura che gli è popria, impertinente per natura, ri-conosce già il prossimo in colui che si abbandona ad essere persona. Perché gli occhi sono lo strumento atto a travalicare l'isolamento di uno sguardo in sé: giacciono nell'inquetudine ontologica fino a che, fatalmente, davanti, qualcuno non appare.