Andrea Lupo
Quando a dodici anni vidi Amadeus al cinema, accompagnato da mamma e zia, arrivammo “puntualmente” in ritardo di un quarto d’ora. Lontani, per il sottoscritto, i tempi in cui certe fisime “alleniane” avrebbero potuto impedirmi perfino di presentarmi al botteghino (ricordate Io e Annie dove il buon Woody si rifiutava di entrare in sala a film iniziato da “due” minuti? Più o meno sarei diventato come lui). Troppo forte del resto era il desiderio di vedere quella pellicola che aveva saputo avvincermi col suo trailer cupo, misterioso e potente. Persi (salvo recuperarlo subito dopo) il potente incipit iniziale, quando Salieri, dopo aver tentato il suicidio, veniva portato in manicomio sulle note maestose e brillanti della Sinfonia n. 25 in Sol minore. E anche se al cinema entrammo nel corso di una più “licenziosa” sequenza (Mozart che seduce la futura moglie Costanza a colpi di volgarità pronunciate al contrario), quel lungometraggio rappresentò comunque per il sottoscritto l’ingresso ufficiale nel cosiddetto cinema “adulto”. Il battesimo, in particolare, avvenne per tramite di uno sconvolgente passaggio, quello in cui Salieri affida alle fiamme (dell’inferno) il suo crocifisso, dichiarando così guerra al Creatore e a tutta la sua moltitudine di angeli sboccati e lussuriosi.
Da allora una sensazione non ha cessato più di accompagnarmi durante le innumerevoli visioni del bellissimo film di Milos Forman. È un’impressione che travalica l’idea di biografia romanzata e che va oltre la sua messinscena ludica, sfarzosa e iconograficamente “lussuriosa”. Quella di aver assistito quasi a un lugubre e sontuoso “horror”. Dell’anima innanzitutto. Di quella che Antonio Salieri, avvinto dal fato e beffato da Dio, a un certo punto cede al diavolo mediante un patto iniquo che non gli procurerà né il piacere né la conoscenza del mondo tipicamente faustiani, quanto (solamente) una logorante presa d’atto del genio altrui. Orrore come quello che investe le due creature protagoniste della storia, involucri umani troppo inadeguati a contenere quella specie di conflitto (in musica) fra Bene e Male e talmente deboli da poter uscire da questo in un unico modo: entrambi annientati.
Uno spettacolo orroroso, dove però l’Inferno e Paradiso si scambiano di posto. Perché se la voce di Dio nel film si palesa attraverso le sembianze di un angelo caduto e lussurioso, al Diavolo, per contrappasso, tocca incarnarsi in un essere casto e mediocre, dedito alla cristianità e dotato di sensibilità musicale quasi “divina”. Questa la mirabile intuizione di Amadeus. Chiaroscuri dell’anima racchiusi dentro un gioco di ombre (anche cinematografiche), frammenti di follia e raziocinio disseminati lungo il sentiero a ritroso della memoria, quella memoria (di Herr Salieri) che si dilania – e forse si “libera” – nel momento stesso in cui rievoca. Amadeus quale horror sublime che ci atterrisce con la sua messa in scena dei dualismi umani (Bene/Male, Logica/Follia, Genio/Mediocrità) e per quella scelta di rendere la musica mozartiana il meraviglioso portavoce di queste sconvolgenti dialettiche.
I musicofili agguerriti dell’epoca, quando si trovarono a giudicare il film, si preoccuparono soltanto della sua mancanza di verosimiglianza storica e delle tante inesattezze biografiche in esso disseminate (per intenderci, nessun Salieri tramò per impossessarsi del Requiem e per, successivamente, ucciderne l’odiato autore; a commissionare composizioni altrui dai musicisti per poi spacciarle come proprie, era invece, all’epoca, il conte di nome Walsegg-Stuppach). Tutto vero ovviamente. Non tutto condivisibile però sotto il profilo squisitamente cinematografico. Perché il fascino di un’opera come questa sta proprio nel modo (sfacciato) in cui forza il dato biografico per divenire (anche) altro. Perché insinuarsi dentro l’aura di un passato quasi impossibile da indagare e restituire il dramma, a tinte cupissime, di un essere corroso dall’antagonismo dell’epoca (nonostante Salieri venisse acclamato assai più di Mozart), significa solo celebrare il potere sublime e stordente della musica e, soprattutto, il suo mistero.
E così, alla fine del film, più che ragionare intorno all’enigma della morte di Wolfy, bisognerebbe chiedersi “come” quel Requiem di terrificante bellezza sia potuto realmente scaturire dalla mente di un individuo così provato fisicamente e psicologicamente. Amadeus, oltre a restituire da ben trent’anni uno spettacolo cinematografico avvolgente e travolgente, riesce a operare anche questo miracolo sullo spettatore, conducendolo a interrogarsi, col “pretesto” di una biografia romanzata, su quel prodigio che resta l’uomo. Alla musica di Mozart tocca il compito di renderci ancora più mirabile la contemplazione di un simile quadro. Quella musica capace di proiettarci dentro abissi personali, ora lieti ora inquieti, dei quali ignoravamo l’esistenza. Potrebbe essere la voce di Dio che ci comunica l’esistenza di un paradiso, o le liriche di Figaro al cui canto lieto deleghiamo l’espressione dell’amore. Ma può essere anche l’atto di accusa di un padre verso la disobbedienza del figlio oppure la furiosa sublimazione di un senso di colpa (Don Giovanni). In ultimo può diventare quell’ostinato (Confutatis) che ci annuncia la fine di tutto, poco prima che un ultimo velo di Lacrimosa pietà si stenda sul nostro riposo.
Chissà che non sia stato per questi motivi che Amadeus mi impressionò così tanto al tempo della sua uscita. Forse perché, in un sol colpo, attraverso quella libera e musicale reinvenzione di un genio, la vita, insieme alle sue pulsioni, ai suoi desideri e a quel mistero che l’accompagna fino all’ultimo, aveva acquisito davanti ai miei occhi (gli occhi di un dodicenne) la sua prima e più importante “concretezza” cinematografica. Ero sprofondato nella vita (e nella morte) grazie alla musica e al cinema. E da allora, devo dirlo, mai naufragare in quelle acque fu più dolce…