Amama (When a Tree Falls)

Creato il 30 ottobre 2015 da Af68 @AntonioFalcone1

Presentato nella Selezione Ufficiale della X Festa del Cinema di Roma, Amama (When a Tree Falls), scritto* e diretto dal regista basco Asier Altuna, al suo primo lungometraggio di finzione dopo il documentario Bertsolari (2011), è un film intenso e dotato di grande forza visiva, la cui narrazione, prediligendo rispetto ai dialoghi le immagini e il soffermarsi sugli sguardi dei protagonisti, riesce a delineare, con elegiaco trasporto, un ritratto accorato e sinceramente commovente della realtà sociale propria dei Paesi Baschi; appare comunque idoneo ad assumere una valenza universale, considerandone l’espressa metafora di una possibile conciliazione fra tradizione e modernità, sulla base di un’evoluzione dove l’arte, l’attività artistica, può rivestire un ruolo fondamentale. La narrazione ha svolgimento sullo sfondo di una non precisata località basca, all’interno di un Basseri, tradizionale fattoria dalla massiccia costruzione in pietra dove il rude Tomás (Kándido Uranga) conduce con indomita fierezza, perseguendo le tradizioni familiari, un’attività agricola, coadiuvato dalla moglie Ixabel (Klara Badiola) insieme ai loro tre figli Xabi (Ander Lipus), Gaizka (Manu Uranga) e Amaia (Iraia Elias).

Amparo Badiola

La nonna (amama nella lingua locale in cui il film è girato, interpretata da Amparo Badiola), osserva tutto e tutti silente, consegna il suo sguardo, che vale più di tante parole, a tale “mondo a parte” che la circonda da tempo (memorabile l’occhiata rivolta alla città, dove si reca in auto con la nipote), probabilmente consapevole che quell’immutabilità dal retaggio ancestrale, in cui il tempo è scandito dal ciclico intervallarsi delle stagioni, non potrà perpetrarsi all’infinito, se non con modalità diverse da quelle proprie di un rituale ripetersi di gesti e consuetudini. Infatti Xabi e Gaizka abbandoneranno presto l’ambiente rurale, stanchi dell’autoritarismo paterno e delle sue ataviche forme di manifestazione, mentre Amaia appare combattuta: stabilirsi definitivamente in città, per dedicarsi del tutto alla sua attività di video artista, o dividersi tra le due realtà?
Si rivela forte, infatti, il legame che avverte per la propria terra d’origine, mutuato però attraverso la figura della nonna e non quella paterna.
Avverte come il rigido genitore non abbia saputo trarre profitto dall’atavismo familiare, da usare non quale pesante gravame da tramandare in nome di un destino già assegnato, bensì come stimolo ed insegnamento per la propria vita e quella dei congiunti. Nella scelta della donna, ancora una volta, la figura della dolce amama si rivelerà determinante…

Iraia Elias

Attraverso uno stile sobrio, libero da compiacimenti o vacui sentimentalismi, Altuna asseconda il naturale e fluido susseguirsi delle immagini, validamente intarsiate dall’agile montaggio di Laurent Dufreche ed avvalorate dalla fotografia di Javier Agirre Erauso, nonché dal suggestivo incedere sonoro (Javi P3Z, Mursego). Rende quindi omaggio, con poetico distacco, all’ambiente in cui è cresciuto, di cui si rende simbolo il bellissimo personaggio della nonna, la quale diviene un corpo unico con la macchina da presa nel riportare e cristallizzare sullo schermo la rappresentazione di un mondo ormai quasi del tutto scomparso o comunque oggetto di profonde trasformazioni.
Più che rimpianto o strali contro la modernità il regista basco intende, riporto la mia personale sensazione, manifestare un simbolico legame tra vecchio e nuovo, una possibile conciliazione fra tradizione e modernità attraverso i personaggi di Amaia e la sua amama. L’eredità di quest’ultima non rappresenta un ingombrante fardello (l’emblematica sequenza iniziale, uno dei nipoti corre attraverso il bosco con la nonna sulle spalle, ad un cui piede è legata una lunga fune), ma qualcosa di nuovo ed inedito che trarrà frutto da quelle lontane origini (la scena che vede il padre innestare una marza sul ceppo di un albero abbattuto in seguito all’ennesimo litigio, ormai consapevole delle scelte filiali).

Badiola e Kándido Uranga

Ed ecco la toccante sequenza finale, Amaia prenderà la sua strada, ma, efficace simbolismo, porterà con sé tutto ciò che sta lasciandosi ormai alle spalle, i genitori, la vecchia casa, le montagne, i boschi, i frutteti, che sembrano trovare posto insieme alla sua attrezzatura e alle sue opere, in virtù della visuale registica (il lunotto del furgoncino). In città prenderà definitivamente vita la sua attività artistica, dopo che la prima esposizione ha avuto luogo proprio nel casale familiare, durante il funerale dell’amata nonna. Amama è un film pregevole, forse con qualche lungaggine nel finale, del quale mi auguro avvenga presto una distribuzione italiana (a mio avviso andrebbe proiettato in versione originale con sottotitoli).
Al di là degli efficaci interpreti, i veri protagonisti della pellicola appaiono in primo luogo il rispetto per una civiltà antica e i suoi valori fondanti e poi il fascino sempiterno di un modo di fare cinema volto ad esprimere poesia e forza ammaliatrice nella predilezione di toni onirici e a volte surreali.
Altuna riunisce in una cornice metafisica diverse generazioni, metaforizzando, più che il rammarico per un mondo che non c’è più, riprendendo quanto già scritto, la speranza che i valori espressi dalla memoria storica come valore fondante rimangano vivi nella loro essenza di base, nonostante l’inesorabile fluire del tempo destinato a mutarne forma e consistenza.

Amama si è aggiudicato il Premio Irizar del Cinema Basco e la Menzione speciale del Premio Signis all’ultima edizione del Festival di San Sebastian.

*Insieme a Telmo Esnal, con cui aveva codiretto nel 2005 Aupa Etxebeste!


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