Cult-classic del “pulp” citazionista e di massa, “Lock & Stock” è una criminal-comedy facile e gustosa, in cui il “post-moderno” si accompagna ad una leggerezza british immediata e tradizionale. Girandola narrativa, divertissment puro. Esordio alla regia di un Guy Ritchie ancora nascente e in rampa di lancio, “Lock & Stock” è la prima perla, irregolare e non priva di qualche scabrosità sulla superficie, del trittico pulp dell’autore, con il successivo “Snatch” e il deja-vù “RocknRolla” a costituire l’ossatura portante della sua fattura cinematografica nel genere. Lascio volutamente fuori dal coro “Revolver”, opera minore e più sconclusionata. L’esordio si inserisce nell’ondata europea della freschezza da “ibrido post-moderno” con la sua sistematizzazione lucida e articolata nel “Pulp Fiction” tarantiniano . Ritchie, in effetti, deve molto, moltissimo, all’esempio del noto director del Tennessee, soprattutto per la capacità corale articolata e la tipizzazione “da fumetto” dei caratteri principali. Elementi che non sono inventati ma rielaborati in chiave cinematografica, alla luce di esperienze letterarie già marcate e acquisite nel panorama comune. Quindi la vera differenza tra un Tarantino e un Ritchie sta nell’impostazione formale data all’opera, che, come detto, in entrambi i casi, è frutto di un accurato lavoro di scrittura e di coralità dell’ensemble, ma differisce per un’articolazione narrativa che in “Pulp Fiction” è molto più complessa (una sorta di scatola cinese in cui analessi e prolessi destrutturano la linearità del racconto), rispetto ad un facile montaggio parallelo in fieri che lega le vicende surreali di un gruppo di amici alle prese con eventi disattesi e folli. La differente portata delle opere si inquadra proprio per la struttura della pellicola. Se Tarantino riesce a introdurre il contenuto naif, “matto”, funny e carico di un’ironia esagerata e sboccata in una forma adeguata, perché innovativa e frutto di un geniale accostamento di sequenze, in cui la narratività appare stravolta e giustapposta in singoli capitoli “in cerca di una coerenza” finale, Ritchie cerca di procedere secondo un’ottica più comune, facile, tramite la semplice progressione narrativa con ampie digressioni. Se uno innova dall’esterno, l’altro cerca di far vivere la storia “pulp” dall’interno, rimanendo fedele al modello classico. Questo aspetto non va dimenticato e limita la portata artistica di “Lock & Stock”, a cui aggiungere l’uscita successiva (il film british è del 1998) rispetto a "Pulp Fiction", che fa emergere come lo spirito di emulazione/corsa al successo facile sia manifesto, diminuendo l’originalità del prodotto. Per il resto, un divertimento guadente e una storia scritta con grande cura, in cui i tipi sono soggetti ad un processo di “banalizzazione” meno caricaturale. A convincere è, forse, proprio, il taglio meno scoppiettante e più “morale” della pellicola, che si adagia su un meccanismo di violenza come “futile spirale” ma evita ogni provocazione fine a sé stessa, magari cinephile-addicted, e trova nella caratterizzazione senza eccessi il suo punto di vista più riuscito.
Cult-classic del “pulp” citazionista e di massa, “Lock & Stock” è una criminal-comedy facile e gustosa, in cui il “post-moderno” si accompagna ad una leggerezza british immediata e tradizionale. Girandola narrativa, divertissment puro. Esordio alla regia di un Guy Ritchie ancora nascente e in rampa di lancio, “Lock & Stock” è la prima perla, irregolare e non priva di qualche scabrosità sulla superficie, del trittico pulp dell’autore, con il successivo “Snatch” e il deja-vù “RocknRolla” a costituire l’ossatura portante della sua fattura cinematografica nel genere. Lascio volutamente fuori dal coro “Revolver”, opera minore e più sconclusionata. L’esordio si inserisce nell’ondata europea della freschezza da “ibrido post-moderno” con la sua sistematizzazione lucida e articolata nel “Pulp Fiction” tarantiniano . Ritchie, in effetti, deve molto, moltissimo, all’esempio del noto director del Tennessee, soprattutto per la capacità corale articolata e la tipizzazione “da fumetto” dei caratteri principali. Elementi che non sono inventati ma rielaborati in chiave cinematografica, alla luce di esperienze letterarie già marcate e acquisite nel panorama comune. Quindi la vera differenza tra un Tarantino e un Ritchie sta nell’impostazione formale data all’opera, che, come detto, in entrambi i casi, è frutto di un accurato lavoro di scrittura e di coralità dell’ensemble, ma differisce per un’articolazione narrativa che in “Pulp Fiction” è molto più complessa (una sorta di scatola cinese in cui analessi e prolessi destrutturano la linearità del racconto), rispetto ad un facile montaggio parallelo in fieri che lega le vicende surreali di un gruppo di amici alle prese con eventi disattesi e folli. La differente portata delle opere si inquadra proprio per la struttura della pellicola. Se Tarantino riesce a introdurre il contenuto naif, “matto”, funny e carico di un’ironia esagerata e sboccata in una forma adeguata, perché innovativa e frutto di un geniale accostamento di sequenze, in cui la narratività appare stravolta e giustapposta in singoli capitoli “in cerca di una coerenza” finale, Ritchie cerca di procedere secondo un’ottica più comune, facile, tramite la semplice progressione narrativa con ampie digressioni. Se uno innova dall’esterno, l’altro cerca di far vivere la storia “pulp” dall’interno, rimanendo fedele al modello classico. Questo aspetto non va dimenticato e limita la portata artistica di “Lock & Stock”, a cui aggiungere l’uscita successiva (il film british è del 1998) rispetto a "Pulp Fiction", che fa emergere come lo spirito di emulazione/corsa al successo facile sia manifesto, diminuendo l’originalità del prodotto. Per il resto, un divertimento guadente e una storia scritta con grande cura, in cui i tipi sono soggetti ad un processo di “banalizzazione” meno caricaturale. A convincere è, forse, proprio, il taglio meno scoppiettante e più “morale” della pellicola, che si adagia su un meccanismo di violenza come “futile spirale” ma evita ogni provocazione fine a sé stessa, magari cinephile-addicted, e trova nella caratterizzazione senza eccessi il suo punto di vista più riuscito.
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