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AMATO IMMORTALE | Meglio un cane | Un saggio di Gian Piero Quaglino

Creato il 22 giugno 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia
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gian_piero_quaglino_meglio_un_cane_recensionedi Elena De Santis

Il rapporto tra l’uomo e il cane, vecchio oltre quindicimila anni, ha in sé qualcosa di magico, e solo chi l’ha sperimentato almeno una volta nella vita può capirne la ragione profonda, e il mistero che vi è sotteso. Strana creatura, il cane. Tanto simile a noi, tanto umano eppure tanto animale: puro istinto primordiale, selvatico, mitigato però da una sconfinata tenerezza. Compagno fedele, presenza discreta, un’ombra che è tutta luce e calore. Del cane non si può che dir bene, e Quaglino – che in questo prezioso saggio (edito da Raffaello Cortina) stila un vero e proprio elogio del cane – non teme di affermare che «più si conoscono gli uomini e più si amano i cani.» Dal cane c’è sempre da imparare. Specchio di ogni virtù, il cane brilla di una saggezza tutta sua, di lealtà e soprattutto di fedeltà.

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Sulla fedeltà canina gli aneddoti e le testimonianze si sprecano: «…cani che seguono il padrone in battaglia; cani che si fanno imprigionare con il loro padrone; cani che bevono il veleno destinato al padrone; cani che nuotano fino a morire per seguire il padrone in mare; cani che si gettano nel fuoco per salvare il padrone; cani che non abbandonano la tomba del padrone; cani che difendono il corpo del padrone tenendo lontano animali feroci; cani che rubano il cibo da portare sulla tomba del padrone; cani che alla morte del padrone rifiutano il cibo fino a morire.» La fedeltà del cane all’uomo appartiene tanto alla realtà quanto al mito, basti citare l’archetipo dell’Argo di Ulisse; a questo proposito Quaglino riporta un passo dell’Odissea (in un adattamento di Alexander Pope): «…senza cibo, senza casa, abbandonato, in terra / come un vecchio servo, ora congedato, se ne stava / desiderando di scorgere un’ultima volta il suo antico padrone / e quando lo vide, si alzò e si trascinò verso lui per andargli incontro / null’altro poteva di più / e fece feste e leccò i piedi / preso da muta gioia; e allora cedendo al suo fianco / riavuto il suo padrone diede in alto lo sguardo e spirò.» Quando l’amore è assoluto la fedeltà è totale. «La fedeltà – scrive Quaglino – è la quintessenza del cane, è il nocciolo e il fondamento, è l’archetipo e il simbolo. La fedeltà è il cane stesso. Qualcuno, per fare l’originale, la chiama lealtà: ottiene lo stesso risultato, ma con minore precisione. Lealtà è legame, alleanza, rispetto, coerenza e fiducia. Fedeltà è devozione, tenerezza, patto, costanza e intimità.»

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Quaglino definisce il cane l’animale della soglia e dell’ombra, alludendo non a luoghi fisici ma a dimensioni di interazione empatica; la soglia è quella tra casa e giardino, tra mondo privato e mondo esterno, ma più ancora quella tra il sé esteriore e il sé interiore (il cane ha scelto di dimorare sulla soglia dell’uomo, di vegliare sulla sua sicurezza, di difendere la sua porzione di territorio, sorta di ombra che al contempo lo precede e lo pedina). Sulla soglia e nell’ombra il cane non parla ma comprende, ascolta e consola; ha lo sguardo disarmato e fiero, sincero, schietto, sempre velato d’implicita umiltà, uno sguardo cucciolo e saggio capace di tradurre ogni sentimento. Con un cane non si è mai soli. I detrattori lo tacciano di servile opportunismo, o peggio ancora di parassitismo, e giù per contro a lodare l’autosufficienza emotiva dei felini. Di chi non ama i cani, ci mette in guardia Quaglino, è meglio non fidarsi; sono questi “nemici dei cani” ad aver messo in circolo espressioni come “sei un cane!” o “vita da cani” o “freddo cane” o ancora “solo come un cane”, dove l’accezione negativa la fa da padrone. Perché tanto accanimento? Al riguardo Quaglino fornisce un elenco molto dettagliato: «…Se si sta molto male si sta da cani, se c’è un chiasso infernale è una cagnara, se c’è un’afa insopportabile è una canicola, un tipo poco raccomandabile è una canaglia, un altro che vi guarda storto vi sta fissando in cagnesco…», senza contare il tracagnotto, il rincagnato, il rognoso, il ringhioso, chi mena il can per l’aia e chi canta come un cane. Dare del cane a qualcuno non è mai stato un complimento, dunque. Ma perché? Eppure la storia millenaria del cane, cerberi a parte, è costellata di buoni esempi (si potrebbe dell’uomo dire altrettanto?); un nome su tutti: Braganza, l’umile e devoto cane-filosofo partorito dalla penna di Cervantes.

Nell’ultimo capitolo del saggio Quaglino si interroga sull’anima del cane, su quel “posto in paradiso” che gli spetterebbe di diritto data la sua infinita umanità. Le pagine più delicate e accorate sono quelle sulla morte del cane, una perdita affettivo-amorosa subita dal padrone alla stregua di un vero e proprio lutto. Nell’elogio funebre al suo adorato cane l’umanista Leon Battista Alberti scrisse: «…Addio dunque, cane, e, per quanto sta in me, possa tu essere, come la tua virtù richiede, immortale.»

Elena De Santis

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Cover Amedit n° 23 – Giugno 2015 “Il ragazzo dagli occhi di cielo” by Iano

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