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Ami Canaan Mann: I miei film? Ho imparato guardando mio padre

Creato il 08 settembre 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

È nata a Londra ma è cresciuta in Indiana con sua madre, il suo primo approccio con il cinema è stata la fotografia, suona il violoncello e la sua fortuna è stata “osservare mio padre a lavoro”. Già, perché Ami Canaan Mann, figlia del celebre Michael, il cinema lo ha vissuto più che imparato dai libri. L’occasione per incontrarla è la 71 Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, dove la regista torna per la seconda volta tre anni dopo aver presentato in concorso il suo esordio, “Le paludi della morte”. Quest’anno arriva nella sezione Orizzonti con “Jackie and Ryan”, una storia d’amore semplice, onesta e genuina tra un busker girovago (Ben Barnes) – nei suoi viaggi per l’America lo accompagnano solo uno zaino e l’inseparabile banjo – e una ex cantante country (Katherine Heigl) impegnata a combattere per la custodia della figlia. Terza protagonista della storia la musica, che è anche l’ispirazione di questo film: l’idea le venne infatti camminando lungo la South Congress Avenue ad Austin, in occasione del ‘South by Southwest’. Fu lì che le capitò di ascoltare un gruppo di musicisti di strada “vagabondi che saltavano sui treni in corsa per non pagare il biglietto e si separavano e si ritrovavano ogni volta in un’altra città con formazioni sempre diverse” e di scambiare qualche parola con un suonatore di banjo, Nick Hans, lo stesso che poi avrebbe realizzato la colonna sonora del film.

Racconti una storia molto diversa da quella affrontata nel tuo film precedente…
Sono una grande fan del cinema di genere e credo che “Jackie and Ryan” appartenga semplicemente a un genera diverso rispetto a “Le paludi della morte”. Nello stesso tempo penso ci siano alcune somiglianze tra i due film, nella misura in cui ho cercato ad esempio di essere fedele ai posti in cui si svolge la storia: la città, l’ambiente, le persone. Sia “Jackie and Ryan” che “Le paludi della morte” rispecchiano due diversi tipi di ricerca, basata in entrambi i casi su persone e vite reali; per questo ho tentato di essere vera e di trattarle con il massimo rispetto.

Se dovessi definire il tuo film con una parola?
Non saprei… Posso dire che sono due persone che si incontrano e poi vanno oltre.

Come hai scelto i due protagonisti?
Qualche tempo fa io e Katherine stavamo lavorando a un altro progetto che alla fine non vide mai la luce; ci rimase però la voglia di lavorare insieme, così appena se ne è presentata l’occasione l’ho colta. Lei è straordinariamente intelligente e credo che Jackie avesse bisogno di sembrare una donna organizzata, controllata, ma con una tristezza di fondo. Puoi quasi sentirla mentre pensa alla sua situazione. Ho pensato che Katherine avesse tutto questo e credo che abbia fatto un lavoro fantastico di cui sono veramente orgogliosa. E poi c’è Ben, adoro il suo modo di essere versatile; può interpretare un criminale del New Jersey o il Principe Caspian, ha sempre voglia di lanciarsi in diversi tipi di ruolo e nello stesso tempo ha quel calore che sullo schermo si vede eccome, ha un cuore d’oro, è davvero un’ottima persona e chiunque può sentire questa cosa che per il personaggio di Ryan era fondamentale.

Le scene in cui si canta e si suona sono state girate dal vivo?
In alcune scene abbiamo usato il playback così che ogni ripresa avesse lo stesso tempo. In questo modo ho potuto montare diverse sequenze, come se stessi usando un metronomo. In altre sequenze invece la musica è suonata dal vivo come quella in cui Ryan si trova in libreria o quella in cui Jackie e Ryan parlano nel portico e lui canta. Ma quando suona la band ad esempio, e sapevo di dover poi montare insieme diversi angoli di ripresa, abbiamo utilizzato il playback così da ottenere lo stesso tempo di quando Ryan suona e canta dal vivo. Un sacco di volte mi sono ritrovata a usare la musica in presa diretta e non quella registrata, come nella canzone finale della scena nello studio: quello che sentiamo è la voce di Ben Barnes, il risultato di ciò che ha fatto sul set.

Jackie and Ryan

Come hai lavorato quindi sulla musica del film?
Ho lavorato su due livelli differenti. Sono stata molto attenta alla scelta dei brani, non solo perché fossero autentiche canzoni di musicisti di strada, ma anche perché completassero in un certo senso la storia stessa. Ad esempio Ryan canta “seduto sulla cima del mondo” poco prima di scoprire la morte dell’amico cowboy e dice “non vuoi uscire con me stasera” mentre guarda Jackie camminare per strada; c’erano alcune linee delle canzoni che volevo facessero parte della storia stessa del film.
E poi c’è un altro livello, quello delle canzoni più moderne, quasi tutte fatte in casa tra amici: ne ho scritte alcune, cantate un paio, Nick Hans ne ha scritte altre e un mio amico dell’Indiana due. Il compositore, Nick, è anche mio amico e abbiamo lavorato a stretto contatto per trovare gli spunti di cui avevamo bisogno.

Era un progetto a cui lavoravi da tempo?
No, ho finito di scrivere questa storia dopo il mio ultimo film che portai qui a Venezia due anni fa.

Si può definire un film sull’America depressa dalla crisi?
Volevo in qualche modo che il contesto del film fosse un po’ quello dell’America colpita dalla recessione; mi piaceva l’idea di raccontare come la crisi abbia avuto degli effetti sulle scelte delle persone e sulle loro decisioni, decisioni importanti come “dove mandare i propri bambini a scuola” e “come sistemare la propria famiglia”.

Cosa hai potuto ‘rubare’ dal lavoro di tuo padre?
Ho iniziato come fotografa di scena, ho imparato a suonare il violoncello e ho scritto fiction. Sono cresciuta in Indiana con mia madre ed è stato nell’adolescenza che ho scoperto che in un film puoi mettere insieme tutte queste cose. Sono molto fortunata ad aver avuto questa inclinazione e ad aver imparato guardando mio padre lavorare. Credo che un film sia un’esperienza abbastanza unica, perché un sacco di ciò che impari non viene dai libri ma è un qualcosa che si tramanda, come una vecchia abilità artigiana. Mi ritengo molto fortunata per aver avuto la possibilità di lavorare con mio padre, Robert Redford e Jon Avnet e ad essere riuscita a prendere da loro un po’ di quello che sanno e che hanno imparato a loro volta.

Tuo padre ha visto il film?
Sì, e gli è piaciuto molto!

Di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net


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