Amici miei (1975)

Creato il 21 agosto 2015 da Af68 @AntonioFalcone1

L’è stanco il Perozzi (Philippe Noiret), giornalista, dopo un’intera notte passata in redazione a pigiare sui tasti della macchina da scrivere. Eppure la voglia di rincasare latita e si prospetta una di quelle giornate in cui ci si sente un po’ “zingari”, presi dalla voglia di assecondare un vagare senza meta. Al riguardo non gli può essere certo d’aiuto il suo figliolo, ormai adulto, serio ed irreprensibile, che, probabilmente, non lo ha mai perdonato per le continue assenze e la separazione dalla madre.
D’altronde con la carne della sua carne non vi è alcuna sintonia, infatti il solo pensiero di cotanto legame “ti fa venir subito voglia d’essere vegetariano”… No, in giorni come questi occorre rintracciare i tuoi più cari amici, quelli capaci di gettare un’intera giornata lavorativa alle ortiche o lasciare mogli e prole in ambasce, per il solo piacere di stare in compagnia, trascorrere qualche ora a far ciò che più ti garba, assecondare la genialità scaturita al momento, mettere in atto qualsiasi trovata goliardica idonea a scacciare, fosse solo per un attimo, l’uggiosa ripetitività del quotidiano. Un tocco di spensierata allegria all’ombra delle responsabilità che la vita comporta, nella necessità, comunque, di farvi fronte.

Duilio Del Prete. Adolfo Celi, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret

Ed eccoli qui, i cari amici, riuniti in auto, pronti a gironzolare fra le colline nei dintorni di Firenze, insieme al Perozzi: l’architetto Melandri (Gastone Moschin), sempre alla ricerca del grande amore da idealizzare ed idolatrare, almeno fin quando la realtà non prevarrà sulla poesia, Necchi (Duilio Del Prete), proprietario e gestore di un bar insieme alla moglie, che supera a suo modo il dolore per la perdita di un figlio, il conte, decaduto, Mascetti (Ugo Tognazzi), il quale ha fatto fuori allegramente il patrimonio di famiglia nel giro di poco tempo ed è ora ricattato dagli strozzini, tanto che vive con moglie (Milena Vukotic) e figlia in uno squallido seminterrato (senza rinunciare alla giovane amante), l’illustre chirurgo prof. Sassaroli (Adolfo Celi), unitosi al gruppo in un secondo momento, una volta conosciuti i quattro nell’occasione della tragica conclusione di un’ennesima “zingarata”. Chissà, forse hanno ragione loro, solo così, pigliando tutto come un gioco, ci si può sentire qualcuno in questo strano mondo, burlandosi delle umane miserie, esorcizzando l’ultimo giro di giostra, il quale non si farà certo attendere …

“Ma no, aspetti, mi porga l’indice, ecco lo alzi così, guardi, guardi, guardi, lo vede il dito, lo vede che stuzzica, e prematura anche !”

Derivato da un soggetto di Pietro Germi, che morì poco prima delle riprese, Amici miei vide il subentro alla regia di Mario Monicelli. Quest’ultimo, insieme agli sceneggiatori Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli, una volta scelto come scenario della storia la città di Firenze in luogo della prevista Bologna, offrì spazio nel corso della narrazione tanto al senso di amarezza esistenziale che era proprio del collega (ulteriormente sottolineato dall’incedere sonoro delle note composte da Carlo Rustichelli, nonché dai toni della fotografia di Luigi Kuiveller), quanto, non senza qualche stridore, alla tradizione tutta toscana, con ascendenze letterarie, della beffa e dello scherno. Si rendeva così protagonista una comicità, a volte un po’ greve, che trovava il suo fondamento in un particolare naturalismo sociale.
Evidente, infatti, fra toni gaudenti e la prevalsa su qualsiasi rapporto dell’amicizia virile (tematica rimarcata da una costante misoginia), il senso di profonda disillusione apportato dalla consapevolezza di non riuscire a dare alla propria esistenza il corso che si vorrebbe. Si porta avanti l’estremo tentativo di scacciare il demone della morte incombente, la quale viene vista come uno dei tanti intrusi nel proprio mondo, costruito ad uso e misura di solenni e ben orchestrate canzonature, anche crudeli, facendosi beffe di tutto e di tutti, se stessi in primo luogo.

“No! No! Attenzione, no, pattene soppaltate secondo l’articolo 12, abbia pazienza, sennò posterdati per due anche un pochino antani prefettura!”

Eredi di Buffalmacco, i cinque buontemponi, ormai cinquantenni, sublimano l’arte del cazzeggio come opportuno escamotage per sentirsi propriamente vivi. Ciascuno dei personaggi viene reso al meglio delle personali caratteristiche psicologiche e comportamentali dai rispettivi interpreti, anche se, in particolare, appaiono indimenticabili soprattutto Noiret, con la sua compostezza nel gettare tutto in celia, e Tognazzi, uomo meschino ma in fondo nobile nell’animo, forte di un’indomita vitalità, oltre che sublime maestro della supercazzola, particolare e beffardo scioglilingua, utile, non sempre, a venir fuori da incresciose situazioni.
Nel loro continuo girovagare alla ricerca di un’ispirazione per i loro scherzi, ne combinano delle belle, dallo schiaffeggiare i viaggiatori affacciati ai finestrini di un treno in partenza, alle burle a danno del pensionato Righi (Bernard Blier), cui fanno credere di essere una gang criminale dedita allo smercio di droga, senza dimenticare il passaggio per paesini dimenticati da Dio, dove, fingendosi tecnici comunali, ne ipotizzano l’imminente cancellazione per lasciare il posto ad improbabili autostrade.

Noiret e Bernard Blier

Frizzi e lazzi si susseguono, intervallati da momenti di “ordinaria” esistenza, sino al decesso del Perozzi, colpito da un infarto.
Giunti al suo capezzale gli amici si interrogheranno sul senso della vita, giusto per un attimo, perché nel corso del funerale, sulle note di Bella figlia dell’amore (dal Rigoletto di Giuseppe Verdi, colonna sonora delle loro imprese), sbeffeggeranno ulteriormente la morte, approfittando della sua presenza. L’apparizione di Righi, sarà infatti occasione per un ulteriore scherzo, con le risate, a stento trattenute, che andranno ben presto a sostituirsi alle lacrime. Diretto da Monicelli assecondando un andamento episodico, così come scaturisce dalla voce narrante di Perozzi (Noiret è doppiato da Renzo Montagnani), alternando frammenti di ricordi e vicende attuali, Amici miei traccia una sorta di solco tra la classica commedia all’italiana degli anni Cinquanta – Sessanta e l’inedita piega che viene ora ad assumere, a partire, per l’appunto, dagli anni Settanta.

Gastone Moschin e Noiret

La critica all’arrivismo sociale, al facile benessere, venata da toni comici, cinici e grotteschi, con la rappresentazione, sullo sfondo, della speranza di un mondo migliore, lascia il posto a toni aspri, esprimendo un profondo disincanto, proprio di chi non è riuscito a cambiare lo stato delle cose.
Ecco che il trovare rifugio all’interno di un ristretto ed affiatato gruppo di amici, entusiasti complici nell’assumere la goliardia come stile di vita, perennemente combattuti tra la tentazione di una convenzionalità da buoni borghesi e assecondare un continuo dileggiare, può comunque offrire temporaneo significato all’esistenza, levando in alto con fierezza il vessillo di una fanciullesca spontaneità. Da ricordare i due seguiti, entrambi con Montagnani nel ruolo di Necchi, il valido Amici miei atto II, 1983, sempre di Monicelli e Atto III, 1985, diretto invece da Nanny Loy, divertente ma ormai col fiato un po’ corto. Senz’altro dimenticabile, invece, il prequel del 2011, Amici miei come tutto ebbe inizio, per la regia di Neri Parenti, il quale più che del paventato “reato di lesa maestà”, si macchia di “lesa attualità”.

Nel retrodatare, infatti, con timoroso rispetto e presuntuosi eccessi filologici (la supercazzola finale su tutto), le gesta dei 5 compagnoni, le decontestualizza col pretesto di conferirgli valore universale, evitando così qualsiasi riferimento con il reale. Le stesse burle, per quanto ben orchestrate, richiamano varie situazioni di nostrane commedie d’antan, strappando qualche sorriso e lasciando un sentore malinconico, comunque emergente fra le prevedibili volgarità. Predomina un vago senso di straniamento che accompagna dapprima i protagonisti, semplici figurine di carta stagliate sullo sfondo, e poi noi spettatori, ormai orfani dell’originario moralizzar sfottendo cui erano ben adusi gli originari autori (per quanto nel soggetto siano intervenuti De Bernardi, Benvenuti e Pinelli), maestri insuperati nell’arte di far confluire comicità e senso del tragico all’interno dello stesso alveo, con la semplice intenzione, senza alcun compiacimento, di offrire adeguato proscenio all’essenza stessa della vita.


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