Amor vincit omnia
Creato il 18 luglio 2014 da Malvino
Tale
è la quantità di cazzate che Marco Bona Castellotti riesce a stipare in poco
più di 3.500 battute spazi inclusi – parlo dell’articolo che firma per Il Foglio di mercoledì 16 luglio – che
viene un sospetto: avrà voluto divertirsi a pigliarci per il culo?
Scrive dell’Amor vincit omnia del Caravaggio e
attacca il pezzo con un aneddoto tratto da Le
vite de’ pittori messinesi di Francesco Susinno che potrebbe dare indizio
di «inclinazioni pedofile» del
Merisi, però afferma non ne costituisca prova. Perché citarlo, allora? Perché
allo Staatliche Museen di Berlino, dove è esposto il dipinto, «un gruppo di signori e signore tedeschi ne
hanno chiesto la rimozione con l’accusa di essere un’immagine che può
alimentare la pedofilia». Quand’anche l’alimentasse, dovrebbe indurci
almeno a sospettare che il Caravaggio fosse pedofilo? Di soggetti in età
prepuberale ritratti nudi è piena la storia dell’arte: la questione si solleva
anche per Il bagno del neonato di
Benozzo Gozzoli e per la Sacra famiglia
con San Giovannino di Andrea Mantegna?
Domande che oggi non hanno senso,
conviene consultare le fonti storiche per verificare se il dipinto del Caravaggio le
abbia sollevate in epoca anteriore a quella in cui la pedofilia ha cominciato
ad essere riconosciuta in quanto tale. Bene, c’è da constatare che non le abbia mai sollevate, e non è nemmeno difficile capire il perché: la nudità di un
fanciullo ha cominciato a scandalizzare solo da poco più di un secolo in qua. Quando
il Caravaggio si vedrà censurata la prima versione di San Matteo e l’angelo, il problema non era l’angelo prepubere seminudo
ma il santo con la faccia da rozzo contadino, per giunta coi piedi sporchi. Se la
Congregazione dei Palafrenieri gli rifiuterà la Madonna del serpe, non sarà per il Gesù sui sei-sette anni che lì è ritratto interamente
nudo, ma per gli abiti da pezzenti che stanno addosso alla Vergine e a Sant’Anna.
Alla Controriforma non dà alcun fastidio la nudità di bambini, ragazzi,
adolescenti o adulti, se si tratta di soggetti maschili: il problema si pone
solo per i soggetti femminili, uno per tutti valga l’esempio dei guai che capitarono ad Agostino Carracci per gli affreschi di Palazzo Farnese. C’è anzi
da rilevare che quando la nudità crea qualche problema, com’è nel caso in cui
si commissionano a Daniele da Volterra i mutandoni per le pudenda ritratte da
Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina, la questione non tocca mai
soggetti in età prepuberale, e per una semplicissima ragione: il ragazzo nudo evoca sempre, o quasi, l’ideale di innocenza, non sollecita mai reazioni di scandalo, perché in
pratica è considerato un essere asessuato. E per l’Amor vincit omnia abbiamo una prova diretta in ciò che scrive il
cardinale Federico Borromeo nel suo De
pictura sacra: nulla da ridire sull’inverecondia del soggetto, si limita a biasimare l’eccessivo entusiasmo che l’impressionante realismo del dipinto provocava in
chi l’osservava.
Possiamo concludere che il dipinto abbia sempre turbato chi avesse modo di
osservarlo, ma mai perché solleticasse un’invereconda prurigine. E allora come
salta in testa a uno studioso d’arte come Marco Bona Castellotti di tirare in
ballo la pedofilia? Sarà mica perché il Caravaggio era omosessuale? Sarebbe
prova che al professore ha fatto male l’assidua frequentazione coi ciellini.
Tanto male da impedirgli di considerare l’idealizzazione della figura del
fanciullo di cui il neoplatonismo ha lasciato segni per tutto l’Umanesimo e il
Rinascimento. Ma
questo non è tutto, perché Marco Bona Castellotti scrive che «il Giustiniani, nella sua galleria, teneva [il
dipinto] coperto da un drappo, perché
essendo il migliore dei quadri da lui posseduti, temeva oscurasse gli altri».
Vero, ma il professore dimentica di dire che questo timore non fu mai del Giustiniani, ma di Joachim
von Sandrart, che per qualche tempo fu il curatore della collezione. Ed è
proprio dalle memorie del von Sandrart che abbiamo ulteriore conferma del fatto
che nessun visitatore di Palazzo Giustiniani fu mai turbato dal dipinto, ed è da queste pagine che apprendiamo che non
furono pochi, sicché è sconcertante che il professore scriva: «L’opera era di destinazione privatissima ed
eventuali scandali non avrebbero mai oltrepassato i muri di Palazzo Giustiniani»;
ancor più sconcertante che, dopo aver affermato che il soggetto sia «allusivo di sottaciute inclinazioni omoerotiche», il professore aggiunga che tuttavia sia «avventato supporre
che [il dipinto] fosse una specie di
emblema di una ristretta cerchia di omosessuali romani d’alto lignaggio,
capeggiata dal marchese». Più che avventato direi non abbia alcuna base, e dunque perché farvi cenno? In
quanto al fatto che l’Amor vincit omnia
possa alludere alla potenza del desiderio omoerotico che infrange ogni freno morale,
è evidente che al professore manchi la lezione di Maurizio Calvesi, che ha
dimostrato con ampiezza e profondità di argomentazione che il soggetto
sintetizzato nel motto latino è di chiara ispirazione al Cremona fedelissima città… di Antonio Campi del 1585, e altro non è
che un’esaltazione dell’«Amor Virtuoso,
cioè pur sempre di un amore sacro, divino», che ha la meglio sulle scienze
e sulle arti (Caravaggio o la ricerca,
poi in Le realtà del Caravaggio,
Einaudi 1990).
Ma
siamo solo a metà dell’articolo e il peggio ha ancora da venire. Eccolo: «Nel quadro, saggio di straordinaria abilità
mimetica, Caravaggio ha versato una dose abbondante d’ironia. A osservarlo bene
questo Amore stradaiolo, ridanciano e spudorato, ha un corpo disarmonico,
spiccando una certa sproporzione tra il braccio destro troppo corto, le gambe troppo
lunghe, la testa al limite dell’acromegalia, il busto tozzo. È impensabile che
l’insigne autore fosse incorso in errori anatomici; è invece probabile che
abbia provato diletto e soddisfazione nel volgarizzare qualche modello illustre».
Ora, a parte il fatto che da Bernardo Berenson in poi non si contano gli
studiosi che hanno segnalato i numerosi impacci che il Caravaggio mostra in
anatomia, mai come nel caso dell’Amor
vincit omnia le dette osservazioni sono fuori luogo. Procedendo, infatti, dai piani posteriori a quelli anteriori della scena, affiorano via via la spalla sinistra, la piega del gomito destro, l’avambraccio e la mano dello stesso lato, la parte superiore del torso, la spalla destra, il ventre, il volto, la gamba destra, il piede dello stesso lato, la coscia sinistra, la coscia destra e infine il ginocchio dello stesso lato: questa progressione dà ampia ragione della lunghezza dei segmenti, sicché le sproporzioni rilevate da Marco Bona Castellotti
risultano del tutto illusorie, mentre l’osservazione che in queste inesistenti sproporzioni
il Merisi abbia voluto metterci ironia, beh, lascia davvero senza parole. A margine, è da
rilevare che il professore non abbia la ben che minima idea di cosa sia davvero
l’acromegalia.
È
tutto? Niente affatto, perché il professore ravvisa che per l’Amor vincit omnia il Caravaggio «aveva attinto a una delle figure più
tragiche del “Giudizio Universale” di Michelangelo: il San Bartolomeo scuoiato,
con la pelle in mano, su cui è rimasto impresso il proprio ritratto deformato.
Un colpo di virtuosismo pittorico sensazionale». Qui di sensazionale pare
esservi soltanto un’affermazione che non poggia su alcuna fonte e non trova
alcun serio fondamento nell’analisi formale. D’altronde a questa affermazione
arriva grazie a un unico elemento che accomuna i due soggetti, seppure solo in
modo assai vago: la postura assunta dalla coscia sinistra. Trattandosi di una
postura che ritroviamo in mille altre opere d’arte, si potrebbe liquidare l’osservazione
come arbitraria e del tutto gratuita. Se è vero, infatti, che chi «vincit» è
spesso raffigurato con una coscia divaricata rispetto all’asse sagittale mediano del corpo e con un
ginocchio poggiato sul «victum», su cosa sarebbe «victor» il San
Bartolomeo michelangiolesco? Volendo a tutti i costi trovare un modello del
Buonarroti nell’Amor caravaggesco, perché non la Vittoria di Palazzo Vecchio? Il fatto è sul modello da cui il
Caravaggio ha attinto per raffigurare l’Amor proprio in quella postura c’è chi ha studiato il necessario per poter sennatamente dimostrare che si trova nei cartoni di Simone Peterzano, che del Merisi, guarda caso, fu il maestro.
In
quanto al fatto che Roberto Longhi abbia notato una somiglianza dei tratti
faciali tra il soggetto del quadro di cui stiamo discutendo e il Cristo della Cena in Emmaus, è vero, ma che valore
assume il rilievo che «entrambi i dipinti
furono realizzati nel 1602, il che vanifica l’ipotesi di una mutazione del
soma, determinata da un intervallo temporale»? «Se l’ignoto modello, per nulla ragazzino, fosse stato reclutato a
svolgere funzioni fra loro concettualmente lontanissime, significherebbe che il
pittore lo aveva voluto adattare ai differenti ruoli, invecchiandolo o
ringiovanendolo secondo la bisogna». E grazie al cazzo, c’era bisogno di precisarlo?
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