Amore e arte nella “Berlino segreta” di Hessel Franz

Creato il 26 settembre 2013 da Lundici @lundici_it

Franz Hessel è stato uno dei maggiori protagonisti della vita artistica berlinese durante gli anni della Repubblica di Weimar. Di origine ebraica, era nato a Stettino il 21 novembre 1880; per sfuggire alla persecuzione nazista si rifugiò, come altri intellettuali tedeschi ed austriaci, nella Francia del Sud, a Sanary sur Mer. Ivi morì il 6 gennaio 1941, in un campo di internamento dove, allo scoppio della guerra, era stato rinchiuso, come tanti suoi concittadini, in quanto straniero.

Negli anni ’20, con la moglie Helen Grund, pittrice e traduttrice, e l’amico Henri-Pierre Roché, Hessel aveva dato vita ad una sorta di triangolo amoroso, del quale lo stesso Roché trasse ispirazione per il romanzo “Jules et Jim”, cui in seguito si rifece il regista francese Truffaut nell’omonimo, indimenticabile film (1961/62)  con Jeanne Moreau protagonista.

Conosciuto per aver dedicato gran parte della propria produzione giornalistica alle passeggiate per le strade di Berlino -oltre che di Parigi, dove pure soggiornò-, l’autore tedesco è considerato il più significativo esponente, nel suo Paese, della cosiddetta “flânerie” (termine coniato, diversi anni prima, da Baudelaire), cioè l’arte di passeggiare con calma, senza una meta precisa, per conoscere una città e penetrarne i segreti. A tale proposito pubblicò nel 1929 una raccolta di saggi, “Spazieren in Berlin”. Tra i romanzi, tutti brevi, fulminanti: “Pariser Romanze”, 1920 (“Romanza parigina. Carte di un disperso”, Adelphi, 1997, pp. 92) e il presente “Heimliches Berlin”, 1927 (cioè “Berlino segreta”), scritto, tra il 1924 e il 1925 durante un breve soggiorno a Parigi, pubblicato nel 1927 (l’editore era Rowohlt di Berlino, con cui a lungo egli collaborò) e ripubblicato in Germania solo nel 1982 (ed. Suhrkamp). La presente, con Elliot, è la prima edizione italiana, arricchita da un ottimo saggio introduttivo della traduttrice Eva Banchelli.

Teatro della vicenda - una sorta di commedia di costume in tredici scene, che rispetta l’unità di tempo delle ventiquattr’ore - è il quartiere Ovest della capitale tedesca, la zona attorno al vasto parco cittadino del Tiergarten, amata dalla borghesia colta e prediletta dall’intelligentia bohemienne, un “mondo di ieri” destinato a scomparire di fronte all’avanzata dei nuovi ricchi, coloro che hanno fatto fortuna negli anni della (prima) grande inflazione -1919/1924-. Luoghi che nascondono un “segreto” magico, custodito dai diversi personaggi nell’animo dei quali il difficile periodo di crisi, per il momento alle spalle, ha lasciato una consapevolezza di assoluta precarietà, un’inquietudine diffusa, un’ansia insopprimibile di fuggire lontano per attribuire, forse (!), un significato alla propria esistenza. Ecco allora la figura principale della rappresentazione: Wendelin Domrau, bello, elegante, slanciato, un giovane la cui presenza allieta uomini e donne della sua cerchia, che vive a Berlino fino all’estate del 1924. Quando egli, dopo mille titubanze, se ne va -chissà fino a quando, poi…- tutti si accorgono del vuoto che ha lasciato. Compagna nei suoi stati d’animo è la bellissima Karola, la quale vorrebbe, a sua volta, partire, ma non riesce a prendere una decisione. Ama, ricambiata, Wendelin, ma nessuno dei due parrebbe riuscire a dar corpo al piano di fuga. Oltretutto la donna è legatissima al figlio Erwin, di otto anni. Ella è sposata con Clemens Kestner, amico a sua volta di Wendelin, un colto e bizzarro docente universitario di filologia, studioso di storia antica e molto occupato nella traduzione di Omero. A una società avida di guadagno, egli contrappone una serena morale del “non possesso”. Hessel ce ne fa conoscere i sentimenti, prendendosi in modo bonario gioco di lui. Clemens ama davvero sua moglie, ma, di fronte alla prospettiva che Karola lo lasci per viaggiare con Wendelin, è più preoccupato dall’idea di perdere quest’ultimo (così narcisista, fragile, ma capace di rievocargli gli anni giovanili), piuttosto che la donna, con la quale, in fondo, il legame non si spezzerà mai! Evidenti sono, nell’intreccio, i riferimenti autobiografici.

Lo stile  è scorrevole, quasi musicale, in grado di adattarsi al registro itinerante del racconto. I toni ci sono tutti, con preferenza verso l’umoristico e l’ironico, come il contrasto tra i “sogni di gloria” di Wendelin e la modesta realtà della pensioncina in cui egli vive, “al quarto piano sopra negozi ed uffici, tra Friedrichstrasse e Unter den Linden”. Protagonista assoluto è il paesaggio cittadino, che emerge discreto, il supporto imprescindibile, il sipario sul quale s’intrecciano le vite degli stravaganti personaggi, tutti ritratti con cura dal vivo. I cognomi adottati sono sovente espressione del personaggio stesso, ma in una sorta di rovesciamento sarcastico: ad esempio, un tale Schilfkrot (Ranocchia, in tedesco) è un applaudito cantante, ispirato ad una celebrità dell’epoca, realmente esistita e famosa a Berlino in quel periodo. Donne fatali, alla Marlene Dietrich (alla quale Hessel dedicò un suggestivo libretto, nel 1931), come Margot, che ama indossare camicie maschili e passeggiare a cavallo nel Tiergarten, in compagnia di baldi giovani, Wendelin in testa, va da sé. O come l’inquietante, sessualmente ambigua, Fancy Freo, la cui specialità consiste nell’eseguire “le più audaci canzonette berlinesi con il massimo di raffinatezza e il minimo di sguaiataggine”.

Una quotidianità che finisce per coincidere con un grande caffè-concerto, ma che, sotto una veste spensierata e disinibita, nasconde un carattere di attesa drammatica. Tra pochi anni il nazismo, accolto con entusiasmo da troppi -anche se Berlino non ne fu certo la culla-, coprirà tutto col suo tragico lenzuolo funebre.

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