Siamo alla fine degli anni Sessanta, gli anni dell’emancipazione sessuale e della critica ai valori borghesi in un paese, come gli Stati Uniti d’America, dove era ancora molto forte la morale puritana ereditata dagli antichi fondatori. La canzone è ancora molto conosciuta, ma ciò che forse non si nota è che si tratta di un pezzo prevalentemente strumentale. Vi è un lungo assolo, al centro, dove i suoni di chitarra e di tastiera sono potentemente intrecciati come due corpi durante l’amplesso. La tastiera, coi suoi suoni prolungati e lineari, è molto simile a una donna - il flusso eterno, la sensualità dell’acqua, il grande grembo primordiale dove tutto si rigenera e ricrea -; la chitarra invece è l’elemento maschile: transumanza, intermittenza, discontinuità. Nei suoni striduli e spezzati si nasconde un’aggressività graffiante, acuta; è la parte virile, superficiale ed attiva. La pulsione in se stessa che sottende i due elementi è infine racchiusa nel basso continuo, l’elemento che accompagna la canzone come un battito costante. Quando alla fine, poco prima che l’assolo finisca, i ritmi aumentano fino all’accelerazione e all’esplosione nella ripresa del motivetto iniziale, il rimando all’amore è completo - nella sua realizzazione orgasmica, ovviamente.
“Questa è la fine, meravigliosa amica
Questa è la fine, la mia unica amica, la fine
La fine dei nostri elaborati piani
La fine di tutto ciò che esiste
La fine, senza scampo né sorpresa
Non guarderò mai più dentro i tuoi occhi
Puoi immaginarti come sarà
Così sconfinata e libera
Disperatamente bisognosa
Di qualche mano straniera
In una landa disperata”
La “wasted land” che viene qui evocata, questo grigiore senza orizzonti è molto simile alla “terra desolata” di T.S. Eliot: una metafora del nostro tempo, in cui la cultura sembra arrivata a un punto tale di saturazione da non poter più proseguire il suo cammino di ricerca. Non le rimane allora che amalgamarsi e confondersi, galleggiare sparpagliata su una stessa superficie: è l’estetica del postmoderno.
“Persi in una terra romana di sofferenza Tutti i bambini sono pazzi Tutti i bambini sono pazzi Aspettando una pioggia estiva”.
La pioggia - ricordiamo i versi di Eliot: “Aprile è il mese più crudele: genera/lillà dalla terra morta, mescola/ricordo e desiderio, stimola/le sopite radici con la pioggia primaverile” - è quanto di più deleterio può succedere ai morti: rinnova la vita, rievocando un desiderio di ritorno e di risveglio che non può essere assolutamente accettato. Chi è già morto chiede solo di continuare a morire. E a un certo punto riappare il serpente:
“Cavalca il serpente Cavalca il serpente, fino al lago, l'antico lago, bambina Il serpente è lungo sette miglia Cavalca il serpente, È vecchio e ha la pelle di ghiaccio”.
È il serpente di Blake, il simbolo incarnato delle nostre paure, delle pulsioni più oscure del nostro corpo, degli istinti profondi che imperversano nel nostro inconscio. Perché la morte, infatti, è quasi un “cedere all’inconscio”; e il viaggio rappresentato nel testo è certamente un itinerario di morte, ma è al tempo stesso una regressione verso gli abissi della nostra mente, verso le fonti della vita stessa. Per William Blake, la soluzione di tutti i problemi non può risiedere nella censura, e quindi nella civiltà, ma nell’accettazione in toto di tutto ciò che ci appartiene, di tutto ciò che siamo, nel bene e nel male: l’unità totale dove non c’è più il peccato, perché tutto fa parte di noi. Ecco quindi perché è necessario “cavalcare il serpente”.
“L'assassino si svegliò prima dell'alba, Calzò i suoi stivali. Prese una maschera dalla galleria antica E s'inoltrò nel corridoio Andò dentro la stanza dove viveva sua sorella Poi fece visita a suo fratello, E s'inoltrò nel corridoio E arrivò ad una porta, e guardò all'interno "Padre?""Sì, figlio mio?""Voglio ucciderti." "Madre, voglio...".