di Giorgio Galli
“Amore tormentato e apatia”
da thrillermagazine.it
La letteratura ha parlato di amori tormentati, delusi, feriti, di amori felici o tralignati nell’odio. Ma c’è un momento difficile da cogliere, così sottile da sfuggire all’escavazione delle parole. È il momento in cui la persona un tempo amata cessa di essere interessante, quando cade dal dieci allo zero”. Non si tratta dell’insorgere dell’odio: quello, semmai, è un momento precedente. Si tratta proprio del cadere dei venti, di quell’istante in cui ci si inizia ad accorgere che, confrontando la figura reale con l’incendio interiore che ha fatto divampare, la bilancia non va in pari. È un senso di vuoto, di libertà, e poi di lutto. È come crescere, prendere consapevolezza che la realtà è diversa dalle fiabe. Dopo quel momento, viene l’autunno. I colori sono più scuri, ma l’uva è più matura.
Provo a ricordare. Quand’è che una persona m’è caduta dal dieci allo zero? Di sicuro, è successo quando stavo per andare a visitare Auschwitz. La Regione Toscana organizzava ogni anno, nel giorno della Memoria, una visita ai campi di concentramento per gli studenti dei licei e delle università. Decisi di partire. Andai a salutare un ragazzo che pareva delizioso, gli dissi che al ritorno sicuramente m’avrebbe visto turbato, e lui rispose: “Ma va, sarai l’unico a piangere i morti!, si viaggia per divertirsi…” Lui mi è caduto dal dieci allo zero, e infatti non gli parlai più. Ma sto andando fuori tema, perché questa non era una delusione d’amore.
Era difficile innamorarsi, in un mondo di persone tutte uguali. L’amore rende unico anche l’essere umano più incolore, ma tra persone la cui massima ambizione è di confondersi, di essere tutte allo stesso modo, persino l’amore arranca.
Non dimenticherò mai la sensazione che provai una sera, quando scorsi una mia amica girata di spalle, feci per salutarla e… scoprii che non era la mia amica, ma una che le somigliava, e le somigliava non solo nell’aspetto, ma nel vestito, nei capelli, nel modo di toccarseli, nel modo di camminare e di gestire. Vidi coi miei occhi quello che avevo letto in Pasolini, Scritti corsari e Lettere luterane.
Non so se vi è mai capitato, alla fermata di un autobus, di sentire due ragazzi conversare, e a un certo punto uno dei due dire una frase non sua, una frase di qualche pubblicità: e allora non solo le parole non sono più sue, ma cambia la voce, il tono, il timbro, perfino gli occhi diventano quelli d’un altro. È come stare alla presenza di una “possessione demoniaca”.
La generazione senza sogni è fatta di persone che hanno abdicato a essere se stesse, che hanno la vocazione a essere tutti. Essere tutti può sembrare bello, democratico, può somigliare alla rassegnata completezza del nirvana. Ma è un nirvana squallido, senza comunione né con gli altri, né col mondo, ed è un nirvana reiterato, stazionario, senza Om. Quell’essere tutti è l’essere tutti di una monade. È masturbazione.
Cosa chiedeva la generazione degli uguali ai suoi membri? Innanzitutto, di sentirsi vincitori. Non sapevano ancora di essere destinati a fare i precari o i disoccupati. Allora, l’Italia era un’Italia tronfia, che riversava la paura di diventare povera su quelli che chiamava “immigrati clandestini”. Su di loro proiettava la paura di ciò che sarebbe potuta diventare. Ma i giovani della mia generazione trasudavano la fierezza del reddito. Quando vestivano, non accostavano fogge e colori secondo il gusto, ma semplicemente in modo da far vedere quanto avevano speso. Sembravano insegne pubblicitarie. Tutti vincitori, quindi. Ma quei vincitori non dovevano essere allegri. L’altro obbligo della società degli uguali era che si dovesse essere tormentati. Allegria genuina non c’era. C’era piuttosto una vomitoria euforia. Come in quelle feste dove uno si muove, parla, fa, e poco prima che finisca sente addosso un gran senso di vuoto. Ma in quella ferale euforia bisognava parlare di problemi. Tutti portavano il loro problema cucito addosso, ben in vista come una medaglia al valore. Bisognava essere come i protagonisti dei telefilm: belli, riusciti, ma con una vita incasinata. Forse, quando ci si baciava ci si aspettava la musica e la dissolvenza – o la dissolvenza seguita da una scena di coito e di grida.
L’infelicità di una donna è estremamente attraente per un uomo, ma quando scopre che un’infelicità è recitata, diventa ridicola. Le persone che sprizzano infelicità da tutti i pori si presentano come “molto, troppo sensibili”, ma sono solo molto, troppo egoiste, intente ad auscultare le minime vibrazioni delle loro aride lire e sorde all’esterno, aride perché incapaci di trovar dita che le suonino.
da lindipendenza.com
Mi accadde di imbattermi in una persona così. Talmente egoista che quando dissi che l’amavo, mi pregò di farmelo passare presto perché nella sua vita mancava il ruolo dell’amico e nessuno sapeva svolgerlo meglio di me (perché l’altra caratteristica della generazione degli uguali è di essere fatta da ruoli, e non da esseri vivi dotati d’identità), e che voleva poter parlare con me dei suoi sentimenti per l’altro uomo, quello vero. Quando, soppesando l’incendio interiore che aveva provocato con quello che lei realmente era, la bilancia sprofondò, allora venne l’autunno: un autunno lungo, rabbioso, dai colori molto cupi e da cui venni fuori più maturo. Venni fuori quando amai e sposai una donna di dieci anni più grande di me. La poesia che dedicai a quella ragazza e a tutte le persone come lei si chiama Smettila di adorarti (Contro tutti i narcisi).
Tu che di fuori sei bella come il sole
e brutta dentro come il fango e la sfortuna
tu che ti atteggi come il focolare
e sei come la neve che ci gela
guarda, per una volta, non in te, ma nel creato
non trastullarti nella tua tristezza
che non hai nessun motivo di provare
non ti sentire migliore degli altri
solo perché sei più fragile e insicura
non ritenerti più sensibile di tutti
perché più di tutti ti lamenti e piangi forte
renditi conto della tua fortuna
renditi conto che sulla lieta arida terra
ce ne sta tanta di sfortuna vera
e di qualcuno che, tu dici, t’ha deluso
chiediti pure se non l’hai deluso tu.
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