Amy Winehouse il cadavere di cui (s)parlare.

Creato il 01 agosto 2011 da Ilbicchierediverso

La morte di Amy Winehouse ha scatenato una pletora di redazionali, paginoni, opinioni più o meno autorevoli sulla sua vita e sulla sua fine, tirando fuori dal cilindro il famoso club dei 27 (Morrison, Hendrix, Jones e Joplin a cui si aggiunse nei novanta anche Cobain), l’evergreen della vita spesa in sesso, droga e rock, le giovani vite distrutte dal successo etc etc etc …

Una noia mortale. Questo è quanto crediamo. La morte dell’artista ci ha colpito, era indiscutibilmente un talento vocale di quell’area musicale che va dal r’n’b’ all’urban style e ne siamo rimasti rattristati, soprattutto per la giovane età, ma quello che ci ha sconcertato e annoiato è stato il cattivo gusto mass mediatico che, come sempre, ha seppellito definitivamente il cadavere della cantante esaltandone lo stile di vita o affossandolo, a secondo della tendenza.

Oggi poi sul Corriere della Sera troviamo in prima pagina a firma di Francesco Alberoni una sparata qualunquista e fortemente catto-moralizzatrice intitolata e su “IL ROCK, LA TRASGRESSIONE E LA STAGIONE DELLE DROGHE”, in cui si fanno paragoni con Puccini che «… per comporre le sue opere stava sul lago di Massaciuccoli, solo e, nel più assoluto silenzio, dava voce alle sue emozioni più intime», con la musica italiana degli anni Sessanta che esprimeva sentimenti abituali, l’amore e il rock. Americano, brutto e cattivo che « … nasce dall’espansione di sé, dal superamento delle emozioni normali. È espressione di esperienze parossistiche possibili solo con la droga. E anche chi ascolta questa musica in concerto o in discoteca, spesso, per viverla, deve fare lo stesso ».

Da qui il balzo alle discoteche (non si sa cosa abbiano a che fare con il rock) è bello che fatto ed entrano in gioco anche i rapporti personali e i professionisti che usano cocaina, fino ad arrivare alle fumerie d’Oppio cinesi e al diffondersi delle droghe in Occidente «espressione di una trasformazione dovuta alla vertiginosa innovazione tecnologica e alla mondializzazione in cui si rovesciano gli equilibri di potere mondiale».

Ma perché? Perché questi paragoni? Perché questa confusione di generi, luoghi e pensieri?

Il giornalista forse ha perso di mira gli ultimi 50 anni di rock, la loro storia, il periodo in cui le band e gli artisti si sono formati dando la loro risposta ai disagi contemporanei che avevano, ha dimenticato gli artisti italiani che si sono autodistrutti e che si sono uccisi o fatti uccidere dalla droga lasciandone in piedi, a suo uso e consumo, soltanto alcuni (Mina, Modugno, Endrigo). Non siamo riusciti a capire dove il pezzo volesse andare a parare, ma quello che è rimasto nella nostra bocca è l’amarezza dell’ennesimo vociare insensato sulla morte di un’artista, che in fin dei conti con il rock aveva anche poco a che fare, che è capace di scatenare le peggiori bufere di populismo e tuttologia, diventando un banchetto in decomposizione per chiunque voglia esprimere una sua opinione.

In Rock We Trust, ma anche nel Jazz (che di artisti cocainomani ed eroinomani ne ha a bizzeffe, ma di cui nessuno stranamente parla mai per paura di sfigurare con lo spessore dei suoi protagonisti), nel blues … abbiamo fiducia nei musicisti e nei cantanti e nella loro opera e soprattutto nel loro buonsenso che spesso da subito sembra essere buttato alla malora, che porta a una parabola devastante. Molte vite sono decise da subito e non stupiscono più di tanto poi i tragici epiloghi, purtroppo, anche se servono benissimo a far parlare, a far vendere.

Noi abbiamo fiducia nelle grandi opere musicali, che non sono soltanto classiche o liriche e nelle voci di uomini e donne che lasceranno per sempre un segno indelebile con la vita e la morte che vorranno, con il disprezzo e la comprensione che porteranno con sé, ma non abbiamo fiducia in scritti fatti per essere dei semplici raccoglitori di populismo critico-musicale.

Buona scelta

IBD

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