E il mio rapporto con la musica non faceva di certo eccezione: intorno ai sedici o diciassette anni ero fermamente convinto che l'unico modo concepibile di ascoltare la musica fosse dedicare ad essa ogni più riposta fibra del proprio essere; di sgombrare mente e cuore da tutto ciò che non fosse musica; di fare dentro e fuori sé stessi il più assoluto silenzio.
Trent'anni dopo la penso e non la penso allo stesso modo.
Da una parte ritengo che sì, silenzio e concentrazione consentano di godere della musica, di capirla, di entrarvi dentro con una profondità e un'efficacia inattingibili in altro modo; dall'altra mi guardo indietro e mi viene da citare le parole di Paolo di Tarso: "Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino."
Quello che allora non sapevo, non potevo sapere, e che non avrei capito che parecchio più tardi, era quanto straordinario fosse il potere di curarum levamen della musica. Nulla di straordinario del resto, dato che di solito trent'anni in più sulle spalle di solito aumentano in maniera significativa quantità ed entità delle curae che ci tocca affrontare.
Non sapevo quanto potesse essere bello tornare a casa dopo una giornata faticosa e lasciare che la musica - per dirla con Camilleri - puliziasse l'anima, facendola risplendere a nuovo fino nei suoi angoli più oscuri e polverosi.
Non sapevo - insomma - quanto la musica potesse finire col tempo per diventare (anche) qualcosa di inscindibilmente saldato col resto dell'esistenza: non solo una divinità da venerare, ma anche un vestito comodo da indossare. Il conforto della musica, ecco quello che trent'anni fa non sapevo e adesso so.
E chissà che sia anche per questo che trent'anni fa apprezzavo tanto il kantiano, cristallino nitore di Beethoven e adesso sento tanto vicino il vagare senza meta apparente di Schubert. Tanto si è scritto sugli elementi di crisi che il viandante introduce nelle architetture classiche, snervandole e sovvertendole dall'interno, e io non ho certo la pretesa di aggiungere alcunché di nuovo all'argomento: io so solo che nei momenti di fatica di vivere, di quella fatica che certe volte è preludio e certe volte risultato dello stanchezza, poche cose mi danno un conforto pronto e duraturo quanto quelle lunghissime melodie, quanto quel ruminare armonico interrotto ogni tanto da strappi improvvisi, quanto quei primi tempi di sonata che sono la realizzazione in musica dell'idea di infinito attuale.
Franz Schubert: un antinfiammatorio dell'anima.