Ciò accade a danno di ciò che potremmo chiamare, approssimando, trama. E dico approssimando perché la trama si costruisce proprio in questo scivolare di un piano sull'altro, con ovvie ripercussioni sul finale: ma già, la prevedibilità è un indice dell'esistenza stessa di una storia, e questo Woody Allen lo sa benissimo, sì da farne ulteriore ragione di balocco (o barocco) narrativo. Harry a pezzi è un seducente discutere di vita e di felicità, parecchio consentaneo al regista. Poco gli importa, però, di fare a pezzi credi e valori, pur di portare a compimento questo sistematico smontaggio di una vita organica (è fuori gioco la serenità, se non come maschera altrui).
A dire il vero, poco importa a Woody Allen anche di insistere su queste battute antisemite e irriverenti come di una convenzione, di un punto di partenza per stupire con lo scintillio del suo infaticabile umorismo. La crisi della persona viene eletta a sistema perché è su questo palcoscenico che l'artista gioca le sue carte, in modo più o meno scoperto, nel suo raffinatissimo - e, a seconda dell'umore, talora stucchevole - parnassianesimo. D'altronde, l'arte di Woody Allen, pur giocando con l'elaboratissimo tono pseudodidattico delle sue lunghe tirate, non si spaccia mai per maestra di vita; mi pare invece che si riveli - addirittura con umiltà - per quello che è: irresistibile arte comica.