Ananke di Claudio Romano

Creato il 16 febbraio 2016 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
play video
  • Anno: 2015
  • Durata: 69'
  • Distribuzione: Pablo Distribuzione Indipendente
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Claudio Romano

L’esordio di Claudio Romano, scritto  insieme a Elisabetta L’innocente, presentato in anteprima alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, successivamente al Trieste Science+Fiction 2015, e poi ancora al Festival di Assisi, dove ha vinto il primo premio come miglior film nella sezione “Dove va il cinema italiano”, è uno struggente e amaro ritratto dell’essere umano e del controverso rapporto con il mondo che lo ospita; una natura di cui dovrebbe essere parte integrante e attiva, ma ne è diventato avulso, respinto, quasi non ne fosse più degno.

L’opera è ambientata in un mondo ipotetico nel quale il genere umano è stato colpito da una pandemia che lo sta portando a estinguersi, una malattia che sia contrae con il contatto e che induce le persone a diventare tristi sino a deprimersi, e infine, togliersi la vita. Un film molto inquietante, molto doloroso, che può essere percepito enormemente pessimistico a seconda dello stato d’animo con il quale lo si vive. Perché un mondo nel quale la condivisione, lo scambio, la vicinanza, la relazione, non sono più la fonte più preziosa di crescita, ma addirittura l’esatto contrario, quando il contatto diventa pericolo, malattia, morte, e la solitudine diventa l’unica possibile soluzione per salvarsi, è un mondo senza speranza. Perché all’estremo, se si fugge da qualsiasi contatto, si salva una vita che non può più dare o ricevere, che non può più crescere o arricchirsi, che non può amare o essere amata. E allora c’è da chiedersi se ha senso che venga vissuta. Probabilmente, anche in un mondo così triste e rassegnato, questa visione estrema non è tollerabile, infatti gli esseri umani che tentano di fuggire da tale realtà, sono due, fuggono insieme, uno dei pochi elementi di speranza ma fondamentale. È un mondo in cui l’uomo ha fallito.

Come se avesse approfittato talmente tanto delle risorse che gli sono state offerte, senza mai dare abbastanza, da saturare un sistema che alla fine va in corto e lo respinge, non lo riconosce. Non ci sta più. E lo punisce nel modo peggiore. Portandolo a deprimersi, a perdere le speranze, a perdere interesse, slancio, emotività, vitalità. Molto eloquente ed efficace, la mimica dei due attori, entrambi alla prima esperienza, nel trasmettere tristezza e apatia, resa, di fronte a una condizione ineluttabile.

È un film molto evocativo, forse la sua maggior virtù, e sono tanti gli elementi che contribuiscono a renderlo tale, le singole inquadrature, gli scenari esterni, il suono, il non colore. Più volte è ripresa una finestra vista dall’interno, dalla quale uno dei personaggi guarda fuori con  eloquente espressione di rassegnazione; come se ci fosse un fuori diventato inaccessibile, non fisicamente, come se quel mondo non lo accogliesse più, non lo sentisse più parte di sè, un mondo vivo dal quale si sente escluso. E sono intensissimi, penetranti, i vissuti di inaccessibilità, solitudine, ansia, che ne derivano e che vengono trasmessi allo spettatore in tutta la loro drammaticità. Il suono è un elemento fondamentale, che concorre significativamente a comunicare in modo ancora più denso e carico, la separazione tra uomo e natura. Sono netti e distinti i rumori, tutti, presenti per tutta la durata dell’opera, il vento, il canto degli uccelli, quello dei grilli, la pioggia, il respiro, la deglutizione, lo stridere di una radio che non trasmette più nulla, il ticchettio di un orologio. Tutti suoni pieni. Ma quelli di provenienza umana si percepiscono incredibilmente meno armoniosi, dissonanti, freddi, disturbanti. E poi sono quasi sempre cadenzati, il che rende ancora più profonda e intensa l’inquietudine che li accompagna. Molto bello il ticchettio dell’orologio che cambia frequenza sintonizzandosi con il battito cardiaco, durante il parto. Quasi un tentativo di stabilire un contatto tra ciò che sta morendo, un tempo umano che se ne sta andando, e una vita che nasce, comunque, anche in quel nulla. E allora forse c’è ancora una speranza. O forse no. Anche se apparentemente rassegnato, è un film straordinariamente vitale, che nonostante la delusione e l’amarezza, vuole bene ai suoi personaggi, in cui si avverte distintamente un dolore profondo relativo all’eventualità rappresentata. Anche quella depressione, la fame, l’egoismo, l’indifferenza, sono tanto intense e brutali quanto se ne percepisce il rammarico, la rabbia, l’orrore, la paura. Che possa finire davvero così.Che ce lo meriteremmo.

È un’opera che atterrisce, ma che per essere in grado di farlo, deve avere una forza e un’anima grandi. Lascia spazio a ciò che lo spettatore trova dentro di sé, in base a quali corde fanno vibrare le sue immagini e i suoi rumori. Se ne avverte l’energia, ma è una forza che non invade, che veicola un vissuto potente, e prenderà una forma propria in chi lo guarda. Sia il senso che si può dare agli eventi rappresentati, che il colore, la tonalità che può assumere la visione del mondo che ne deriva, sono lontani dall’essere univoci. Il bianco e nero in questo senso, è una scelta perfetta, lasciando a chi vede, quali, quanti e se mettere i propri colori, se percepirlo più chiaro o più scuro, più luminoso o più buio.

È sufficiente la sua energia perché penetri e squarci qualcosa, perché smuova; poi che cosa, è del tutto libero. Sempre a proposito di potere evocativo, al di là dell’ormai stracitata influenza di Bela Tarr, ci sono stati diversi momenti, durante la visione del film che hanno rievocato nella mia mente, immagini di altre opere, nonostante totalmente diverse tra loro e dalla stessa, e non perché fosse un’intenzione del regista, anche perché per esempio, uno di questi è successivo alle riprese di Ananke, ma perché il film ha avuto il potere di produrre in me delle associazioni, di estendersi oltre sé stesso. Per citarne solo alcuni, l’uso del suono, così cadenzato, insieme a una condizione umana simile, prossima all’estinzione, e al bianco e nero, mi ha riportato più volte a The Wispering Star di Sion Sono, uscito sempre nel 2015. E ancora, sempre il bianco e nero, gli interni, ma soprattutto le dinamiche relazionali tra due persone che comunicano pochissimo pur palesando tanto, sono stati un rimando a Las, di Piotr Dumala, film polacco del 2009. Dinamiche scarnissime dalle quali emerge un universo  di vissuti, di rabbia, amore, bisogno, paura, che traspare senza che siano necessarie parole per esprimerlo e in qualche modo, viene condiviso.

Probabilmente non è un caso, che tra tante malattie, venga scelta proprio la depressione, per sterminare il genere umano. La depressione non è altro che la manifestazione di un sentire sofferente, che non riesce più ad accedere a sé stesso, che si è perso. Un sentire, i cui vissuti emotivi, risorse, slanci, non sono più accessibili, perché si è troppo abituati a “passare da fuori” per sentirsi, per validarsi, per riconoscersi; a passare dal riconoscimento esterno, dall’apparenza, da qualcosa di esterno a sé, che diventa più importante del proprio essere ma è incredibilmente effimero e privo di anima propria. È l’emblema di una società sempre più spersonalizzante, che annulla ogni diversità o non la riconosce, e quindi toglie valore all’unicità di ognuno, mentre si affida a riferimenti aleatori che rispondono all’esigenza di essere visti e non di esserci.

E così si può brillare solo di luce riflessa e si perde la propria, non si accede più ai propri desideri, sogni, dolore, li si accumula in un angolo e si stacca la spina, fino a spegnersi. E anche cercare di fuggire da questo, evitare il contatto con i propri simili, allontanarsi da quel mondo alienante e rifugiarsi nella solitudine, senza cambiare qualcosa di profondo dentro di sé, senza trovare il modo di attingere a quell’anima che si è persa, senza ritrovare la strada per nutrirsi del proprio essere, non è sufficiente per salvarsi.

Perché se nemmeno tornare a bisogni primordiali, fino a sentire la fame, a contendersi il cibo, se nemmeno immergerti in quel mondo vivo di cui dovresti essere parte, riesce a darti abbastanza da trovare un po’ di luce dentro di te, da farti trovare la forza per un sorriso, per ricominciare anche solo a sperare, se dentro di te non trovi nemmeno l’energia necessaria per amare tuo figlio, per prendertene cura, per dargli il tuo calore e godere del suo, quella che dovrebbe essere innata, che è istintiva per ogni essere vivente, se sei capace di fare qualcosa che soltanto l’essere umano tra tutti gli animali sul pianeta, è in grado di fare consapevolmente, abbandonare a sé stesso il frutto del proprio sangue, del proprio amore, perché nessun altro animale è in grado di farlo, allora sei condannato a continuare a fuggire per sempre, scrivendo sempre la stessa lettera, evocando una speranza che nessuno ascolterà, perché stai fuggendo da te stesso, da quel germe che ha afflitto la tua specie e che ormai è insito in te, che l’ha fatta ammalare di egoismo, di egocentrismo, di indifferenza. E anche se sei in grado di procurarti il cibo, di camminare, di produrre delle soluzioni logiche con la tua mente, se non ti fermi e attingi da te e non impari che l’unico modo per ricevere, è trovare il piacere e la gioia di dare e di darti, potrai sempre e solo fuggire.

Questa è solo una delle tante possibili riflessioni interpretative evocate da questa intensissima opera, non quella che era nella mente di Claudio Romano e Elisabetta L’innocente quando hanno scritto il film, sempre che ve ne fosse una, solo uno dei tanti possibili esempi  di come questo film possa far risuonare le corde di chi lo guarda.E quando un’opera è fonte di tormento, sensazioni e riflessioni, tutte diverse, che si prestano a confronto, per quanto mi riguarda, ha già raggiunto un enorme risultato. E in questo senso, trasmette tutta la speranza che i personaggi del film hanno perso, stanchi, delusi, amareggiati; che finché c’è qualcuno che ha ancora la forza e il coraggio di mettersi in gioco e di regalarsi al mondo, in qualsiasi modo lo faccia, sia il suo entusiasmo, il suo lavoro, il suo dolore, la sua arte, nessun contatto, potrà mai essere inutile o pericoloso, o quantomeno, prima di diventarlo, rimane sempre un dono.

Roberta Girau

GUARDA IL TRAILER >>



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :