martedì 4 dicembre 2012 di L'Abattoir
di Elia Maniscalco
“La schiavitù non è altro che lo sfruttamento esercitato da alcuni sul forzato lavoro delle folle” (Lev Nikolaevič Tolstoj)
Ore dodici del mattino di un sabato come tanti: sto seduto dietro ad una tizia tristemente agghindata che tenta, con disperazione, di attirarsi i favori di clienti senza volto.
Mi chiedo come io sia potuto finire qui. Io che ho sempre puntato alto, che ho sempre ottenuto il massimo in quello che facevo, io, la stessa persona che ha ricevuto il via libera per iscriversi al Mensa, proprio io, oggi, mi ritrovo nelle infernali sale di un call center.
Tutto intorno a me è un susseguirsi, un sovrapporsi di urla e telefonate abortite sul nascere: a dominare il tutto, sta la vibrazione fastidiosamente baritonale di un tipo dalla personalità disturbata che cambia identità ad ogni chiamata. Gli hanno insegnato che deve sapersi vendere, che deve essere ammaliante ed attraente, che se è seduto in maniera scomposta i clienti lo capiscono. Già, i clienti e i loro poteri sovrumani, dalle cui volontà dipendono i destini di questo manipolo di lavoratori a progetto come me. Se lavoreranno gratis non si tratterà di diritti calpestati, di dignità lese e soprusi gratuiti: no, sarà tutta colpa della loro scarsa motivazione.
Lo scenario dantesco mi inchioda sulla sedia procurandomi non poche difficoltà alla deglutizione: da ogni parete campeggiano volantini parodianti i classici motti dei richiami alla leva, come se questa che viene portata avanti fosse una vera campagna militare dove, veramente, uno dei team vincerà e uno perderà, nell’allegra generale inconsapevolezza del fatto che l’unico vincitore è il sistema capitalistico che mi legittima nell’atto di provare ad appioppare ad una povera vecchietta un pataccone di plastica lucida e led sbrilluccicanti di cui non ha bisogno. Mi è stato insegnato questo nei giorni passati: ascolta e usa ogni parola a tuo vantaggio, morte loro vita tua, l’importante è vendere, il contratto è tutto. Senza ritegno e senza pudore. Le guardie che sovrintendono alla carneficina di dignità perdute sono i Maestri della Vendita, adulatori di discutibili figure accademiche di dubbia origine e sacerdoti dell’altare di Plutone. Queste fiere affamate di denaro veleggiano tra i loculi, mortiferi latori di stati vegetativi cerebrali, urlando e incitando come diavoli e diavolesse gli animi degli operatori più timidi, che presto si vedranno strappare in faccia quella barzelletta buffonesca che chiamano contratto, di cavilli e insidie piena allo scopo di ottenere più scappatoie possibili a sostegno della propria politica di sfruttamento.
In un angolo, come il simulacro di un albero della cuccagna, un lugubre tavolinetto ospita i premi speciali per la produzione: complementi da cucina di basso valore vanno a prendere il posto di trofei ed allori, ed impotente mi ritrovo a guardare una madre di famiglia che esulta al suo posto perché ora, dopo aver chiuso più contratti di tutti, potrà ricevere in dono uno squallido mouse pad autografato dai suoi sfruttatori.
Nel procedere della giornata, vengo più volte disturbato da un suono acuto e grave allo stesso tempo: è il grido metallico di una trombetta suonata ogni volta che un contratto è portato a casa da qualcuno degli operatori, che si apprestano a ricevere lodi ed onori, coronazioni di un rito tribale e triviale teso a sancire l’identità del più scorante tra gli scorati omini telefonici.
Sono arrivato con i miei piedi in questa sala, spinto dai miei bisogni, attirato dagli specchietti da illusionista di questo sistema che macina professionisti e li schiavizza rendendoli amebe: peggio del tayloriano gorilla ammaestrato, molto peggio, essendo privati anche di quel vigore ancestrale e animalesco che caratterizza l’automa da fabbrica; ridotti a televendite pensanti, tessitori di trame in cui far incappare ingenui e impreparati signori. Sono arrivato qui con i miei piedi, e con gli stessi me ne andrò presto, molto presto. Intanto mi rimetto le cuffie, riapro il microfono e aspetto che il dialer mi passi la prossima chiamata, il prossimo boccalone che starà ad ascoltarmi mentre mi macchio del reato peggiore del mondo: ruberò ai poveri per dare ai ricchi. E i poveri diverranno sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, nunc et in omnia secula seculorum.