Navi fenicie e puniche
di Marco Bonino
Sono stati rinvenuti alcuni relitti, che permettono di inquadrare alcuni aspetti tecnici delle imbarcazioni mediterranee orientali e puniche. Gli scafi arcaici, fin dal Bronzo, erano costruiti a partire dal guscio di fasciame, che era realizzato mediante tavole sagomate e piegate, cucite con legature. Solo dopo avere ottenuto la forma del guscio, si inserivano le strutture interne per garantire la forma e la consistenza dello scafo. A partire dal XIV a.C. le legature fatte di funicelle cominciarono ad essere sostituite da linguette di legno fermate da cavicchi: un miglioramento del sistema di fissaggio, che non cambiava la concezione del guscio portante, ma ne migliorava la robustezza. Nel passaggio dalle legature ai fermi, che diverranno comuni nel periodo classico e romano, sta uno degli argomenti maggiormente dibattuti e studiati dall’archeologia navale. Abbiamo citazioni da parte di Omero, che nell’Iliade ricorda le cuciture (II, 139) e nell’Odissea le biette (V, 240): siamo attorno al IX a.C.; la documentazione archeologica conferma che il cambiamento della tecnica fu un processo lento, che si protrasse fino a tutto il V a.C. con soluzioni miste (da Mazarron in Spagna, del VII a.C., ai relitti del V a.C. di Gela, Marsiglia, Magam el Michael in Israele). In questo processo probabilmente i Punici ebbero una parte, come ci dice Catone il Censore (L’agricoltura, XVIII, 9), quando chiama poenicanum coagmentum (assemblaggio punico) la giunzione con il sistema delle biette fermate da cavicchi, o tenoni e mortase. Si deve supporre che le costruzioni navali fenicie avessero seguito questo percorso, ma non abbiamo la possibilità di attribuire una nazionalità precisa ai relitti. La scarsezza delle nostre conoscenze non ci permette perciò di confermare la teoria secondo cui le navi fenicie fossero superiori alle altre (egizie in particolare) perché avevano la chiglia piuttosto che il fondo piatto. Il relitto di Ulu Burun mostra la presenza di chiglia nel XIV a.C. ma nulla possiamo dire sulla sua nazionalità: poteva essere cipriota, dell’Asia Minore, cretese, egea, siriana o fenicia: il carico di pani di rame e di vasellame non dà indicazioni sul luogo di costruzione. Le prime immagini abbastanza leggibili di navi della zona siro-palestinese (e quindi anche fenicia) provengono dall’Egitto del Nuovo Regno e sono affreschi tebani della metà del XV a.C. Sono immagini generiche, ma il loro autore ha voluto annotare alcuni dettagli non egiziani, come i dritti verticali, la coffa sull’albero, una balaustra che pare a graticcio, ma gli altri elementi non si distinguono molto da quelli delle navi egizie: forse non era facile neppure allora distinguere i tipi diversi di navi. Sempre nel Nuovo Regno, le navi dei bassorilievi della tomba della regina Hatscepsut, che narrano le spedizioni nel Punt (Corno d’Africa), e che appaiono “tipicamente” egizie, erano chiamate navi di Biblo. Più tardi il rilievo di Medinet Habu, del tempio funerario di Ramesse III (circa 1180 a.C.), mostra le navi dei Popoli del Mare, che erano diverse da quelle egizie ed a più riprese sono state attribuite a vari popoli mediterranei, tra cui Shardana e Filistei; è proponibile una loro collocazione mediterranea grazie all’analogia con modelli e raffigurazioni micenee, cipriote e sarde. In seguito abbiamo le serie di modelli in terracotta ciprioti e fenici, databili dall’ VIII al V a.C. che illustrano forme diverse di barche e navi a vela ed a remi; tali modelli probabilmente erano offerte votive alle divinità e in alcuni casi confermano le forme rotonde e simmetriche, con i dritti alti e a volte rientranti, che si sono viste negli affreschi egizi. Dall’VIII a.C. provengono le raffigurazioni più note: i bassorilievi del palazzo di Sennacherib a Ninive e di Sargon a Korsabad, ove compaiono navi a due file di remi, con e senza sperone e navi mercantili ad estremità simmetriche, con e senza remi e con la prua ornata da una scultura a forma di testa di cavallo. Ma questi bassorilievi sono stati eseguiti generalmente non per descrivere le navi, ma per ricordare un fatto storico, inoltre in essi mancano la prospettiva e le proporzioni tra le parti e questo rende difficile proporre ipotesi di ricostruzione tecnicamente coerenti. Alcuni dei modelli votivi di terracotta provenienti dall’area mediterranea orientale, da Cipro all’Egitto e databili dal VII al V a.C., ci danno alcune indicazioni per questo periodo, per noi ancora incerto, di passaggio dalla bireme alla trireme (Erodoto, II, 159). Sono fasi simili a quelle percorse dalla marineria greca, ma con risultati diversi, come confermato dalle fonti letterarie e dalle più recenti monete di Arado e di Sidone (V-IV a.C.).
Durante le guerre persiane le navi fenicie a remi erano pontate e più massicce di quelle greche (Erodoto, VII, 184; Plutarco, Temistocle, XIV, 2) e questo ha fatto supporre, tra le altre ipotesi, che in esse fossero impiegati più rematori per ciascun remo: su questo principio si ebbe lo sviluppo delle altre poliremi: le tetreri (quadriremi) e le penteri (quinqueremi), nel IV a.C. Si arriva alle soglie delle guerre puniche attraverso continui aggiornamenti delle navi a remi, dai pentekonteri alle poliremi, che hanno interessato sia il campo cartaginese, sia quello romano, sullo sfondo del grande sviluppo delle navi a remi di ambito ellenistico; i bassorilievi, i graffiti e le monete ci danno alcuni suggerimenti su questi passaggi in modo più realistico dei secoli precedenti, mentre gli scritti degli storici, pur essendo abbastanza dettagliati (Diodoro, Polibio e Livio), danno informazioni tecniche che vorremmo più precise. Le grandi linee di questa evoluzione, tra il V e il III a.C. possono essere riassunte con l’introduzione della pentere e della tetrere da parte dei Siracusani di Dioniso I, presto imitati dai Cartaginesi, i quali svilupparono ulteriormente queste imbarcazioni, tanto che la tetrere fu poi considerata una loro peculiarità. All’inizio della prima guerra punica la flotta cartaginese era composta da triremi, quadriremi e quinqueremi, mentre quella romana solo da triremi. Roma dovette sopperire all’inferiorità dovuta alla mancanza di quinqueremi, e Polibio racconta che i Romani presero a modello una quinquereme catturata ai Cartaginesi. Il racconto lascia molti dubbi, perché al primo scontro tra le due flotte la quinquereme romana era più lenta di quella cartaginese e quindi non poteva essere una sua copia. Certo i Romani non dovevano essere così sprovveduti da sbagliarsi: avevano quindi privilegiato l’esigenza tattica di imbarcare un numero maggiore di armati. Per una decina d’anni (dal 260 al 249 a.C.) non vi furono cambiamenti sostanziali: dopo la battaglia di Trapani e l’assedio di Lilibeo, le prestazioni della quadrireme di Annibale Rodio suggerivano ai Romani il cambiamento delle quinqueremi per ottenerne migliori qualità nautiche: con la nuova versione vinsero la battaglia finale, alle Egadi nel 241 a.C. e tali quinqueremi furono da allora raffigurate sulle monete romane. Quale sia stato il cambiamento è oggetto di ipotesi: probabilmente si passò da due a tre file di remi, per ottenere scafi più stretti e l’appartenenza della quadrireme di Annibale Rodio alla tradizione rodia-ellenistica pare confermarlo. Le navi mercantili non hanno avuto la stessa fortuna letteraria e figurativa, per cui è più difficile delinearne sia le fasi evolutive che la loro natura. Sono stati ricordati, tra i tipi navali mercantili di origine e tradizione fenicia, i gauloi e gli hippoi: il primo termine fu forse generico per qualsiasi nave mercantile di origine fenicia (Erodoto, III, 136, 1; VI, 17; VIII, 97, 1), le cui sole caratteristiche distintive potevano essere la capacità e la rotondità dello scafo. Il secondo termine in origine definiva navi che avevano una testa di cavallo scolpita a prua e, in alcuni casi, a poppa e per questo è stato attribuito giustamente ai tipi scolpiti nel palazzo di Sargon a Korsabad; le fonti letterarie sono più tarde e si riferiscono a tipi presenti nel Mediterraneo occidentale, forse una tradizione punica rimasta nelle vicinanze di Cadice (Strabone, II, 3. 4; Plinio, Storia naturale VII, 57). Ma come fossero state esattamente queste navi non è dato di sapere con precisione: nel V-IV a.C. nel Mediterraneo le navi mercantili subivano il passaggio definitivo dalla tecnica arcaica a quella classica, con un aumento delle dimensioni, documentato, ad esempio, dall’affresco della Tomba della Nave di Tarquinia e da alcune delle raffigurazione del tophet di Cartagine. L’unico elemento certo relativo alle tecniche costruttive puniche è dato dai segni alfabetici dipinti dai costruttori sullo scafo della nave di Marsala: sono segni di riferimento per allineare e montare correttamente le strutture sul guscio portante. La nave, ora esposta al Museo del Baglio Anselmi di Marsala, è stata interpretata come nave a remi, ma non ci sono prove in merito: è molto probabilmente legata ad uno degli eventi bellici delle prima guerra punica, dall’assedio di Lilibeo, alla battaglia di Trapani, a quella delle Egadi, ma la forma e la profondità della carena sono più adatte ad una nave a vela che ad una nave a remi e non sono stati rinvenuti elementi del sistema di voga. Certo la leggerezza delle strutture può suggerire un sistema misto, ma con i documenti a disposizione questo non può essere stabilito. La cosiddetta nave sorella, di cui è ricostruito il dritto di prua al Museo del Baglio Anselmi, poteva essere una nave a remi, certamente diversa dalla precedente e con un tagliamare a prua ma lo stato del relitto non ci permette di ricostruirne il tipo.
Nelle immagini:
sopra: navi in un affresco ad Akrotiri.
Link: http://users.libero.it/haris/Mykonos_Santorini/Thira/pix/Akrotiri/source/fresque-navires2b.htm
sotto: ricostruzione di una stiva al museo di Olbia