Ancora su autonomia ed eteronomia dell’arte: in realtà, della poesia

Creato il 19 dicembre 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura

Andrea Silva, L’inconscio

Di SONIA CAPOROSSI

Con questi brevi appunti cercherò di tornare su un antico argumentum apparentemente superato, in realtà dotato di un’attualità cogente che viene, sempre più spesso, semplicemente rimossa dalla patria congerie delle umane lettere perché dato per scontato: la questione dell’autonomia e dell’eteronomia dell’arte. A questo fine, dapprima occorre rivisitare parzialmente la spesso antipatica figura di Benedetto Croce, colui che nella vulgata si pose come fermo assertore dell’autonomia di contro all’inevitabile invischiamento eteronomico delle arti e della poesia [i]. Successivamente, occorrerà fare il punto sulla percezione della questione oggi, per stimolare alcune riflessioni che credo importanti in direzione, per una volta,  dell’autoconsapevolezza del poeta in quanto pro-duttore d’arte, piuttosto che del lettore in quanto fruitore.

Quando venne pubblicato il capitale saggio su Autonomia ed eteronomia dell’arte di Luciano Anceschi (1936) la temperie culturale italiana, come si sa, era stata fino a quel momento permeata di crocianesimo ortodosso nel midollo. Per la maggior parte degli addetti ai lavori, il termine “crocianesimo” coincideva con  l’atteggiamento onnipervadente dell’estetica idealistica, dalla cui scaturigine tale impostazione in parte fuoriusciva [ii] esprimendosi in modalità coercitivamente classificatorie e vivisezionanti: la traduzione, caro Gentile, è impossibile; la Forma dev’essere coesa al contenuto altrimenti non è vera Arte; il supremo principio discriminante per individuare la vera opera d’arte è l’intuizione lirica; spesso in una poesia si trovano mescolate variopinte istanze sorgenti dall’anima del poeta non tutte indipendenti dal cosiddetto contesto sociale, storico, politico eccetera; per cui, la vera poesia come intuizione lirica può trovarsi all’interno di un’opera composita anche solo a sprazzi. Qui c’è poesia, lì la poesia non c’è, in questo passo del poema c’è, in quest’altro non c’è. Insomma, la teoria estetica crociana, pur importante e degna di studio, se applicata alla lettera si prestava, e di fatto offriva il destro, a dar luogo ad una prassi critica recante in sé il rischio continuo di clamorose incomprensioni critiche [iii].

A quel tempo, ovvero nella prima metà del Novecento, il concetto idealistico dell’autonomia dell’arte, intesa come manifestazione dello spirito nel suo hegeliano svolgimento necessariamente svincolata, per dirsi tale, da qualsivoglia implicazione pratica, sociale, politica, utilitaristica, andava per la maggiore. Proprio per questo, la posizione definitiva e definitoria del problema dell’eteronomia dell’arte era nell’aria e si rese urgente a causa dell’osservazione fenomenologica della realtà e dei fatti d’arte circostanti, in cui queste implicazioni non solo si reduplicavano come funghi, ma costituivano, anche e soprattutto, la crosta ferrosa delle condizioni di possibilità ermeneutica sottese al textus artistico, poetico, letterario. Come dire che un fatto d’arte difficilmente poteva considerarsi totalmente autonomo e svincolato dalla realtà circondariale all’interno del fluire della quale esso era pur sempre inevitabilmente immerso. E però (per fare l’avvocato del diavolo, sia detto anche come sintomo importante di una successiva miscomprensione di fondo, sopravvenuta dallo strutturalismo in poi, di certo presunto integralismo crociano e crocianista), il libro di Anceschi usciva proprio nello stesso anno in cui Benedetto Croce pubblicava il suo La Poesia [iv] e all’interno del quale, com’è noto, il filosofo di Pescasseroli rielaborava ampiamente gli assunti estetici sviluppati fra il 1898 e il 1902, ammorbidendoli di molto nella conseguente prassi critica. E li rielaborava, in un certo senso, proprio a cominciare da quell’assunto fino ad allora un po’ taciuto e tenuto nascosto dell’eteronomia dell’arte e della poesia in particolare, sviluppando cioè, a livello concettuale, quel riconoscimento di valore e di dignità che la “letteratura” intesa come testimonianza sociologica e storica di un’era possiede, al di là dell’intonsa purezza estetica della Poesia in quanto tale, che pur Croce continuava a pretendere. In qualche modo, insomma, persino l’integralista Croce, dopo le iniziali esclusioni dal novero, riconosceva spazio e legittimità alla produzione letteraria impura, se così è possibile, per nostro vezzo critico, definirla, come a dire: commista col mondo reale. Anche lui si rendeva conto che la dimensione eteronomica era talmente invischiata nei fatti dell’arte e della poesia che difficilmente si sarebbe potuto, dopo gli ultimi sussulti dell’epoca idealistica, per arrivare fino ai giorni nostri, tornare all’idea naif della possibilità di una netta separazione del poetico dall’impoetico tout court.

Alla fin fine, occorreva ammettere che non potrà mai smettere di esistere, dotata di dignità a sé stante, tutta una vasta produzione letteraria che autonoma dal contesto non è, e che tuttavia una sua intrinseca indipendenza, in qualche senso, la detiene, in quanto autonoma, appunto, dai categoremi dell’autonomia: id est, per attualizzare, da quando almeno la poesia è stata eletta come pratica relazionale e politica, ovvero soprattutto nell’esercizio della poesia civile (come anche nel più antico passato era già avvenuto nel caso dell’epos) è deceduto il principio dell’autonomia dell’arte; il ché non è e non sarà buono affatto magari sul piano estetico – filosofico, ma lo è nel contesto del cosiddetto “fare gruppo”, e ciò sia detto nonostante i gruppi poetici di oggi spesso siano detentori di un’autoreferenzialità persino maggiore rispetto a quella del singolo individuo.

Per inciso, dico che non è e non sarà buono sul piano estetico – filosofico perché, quando il contenuto travalica sul resto, per esprimermi con un gioco di parole ogni testo “fa testo”, ovverossia tutto va bene a livello stilistico e formale, in barba al discrimine della forma, natura naturata del dire poetico in quanto tale: e allora capita di leggere le cose più sgraziate, capita di fronteggiare, in nome del sema supremo, la bruttezza.

Se volessimo ora volgere lo sguardo dai tempi crociani alla situazione attuale il discorso diverebbe molto semplice: sembra che oggi si possa e si debba riproporre l’antico problema dell’antitesi fra autonomia ed eteronomia dell’arte, in quanto che l’arte, quand’è arte, ovverossia in senso eminentemente estetico – filosoficodeve essere resa scevra da qualsiasi condizionamento esterno (fenomenologico, sociale, politico, personale ecc.) e tuttavia, in senso eminentemente fenomenologico e sociale, ovvero nel campo della propria pro-duzione, non deve esserlo affatto. Come risolvere quest’annosa, apparente antinomia?

Una possibile risposta consiste nel cercare di delimitare ed identificare i punti di contatto fra le due istanze. Si potrebbe cominciare considerando la realtà del fatto che l’arte può osservare e descrivere la politica ma non deve in nessun modo farsi politica; che l’arte, in particolare la poesia, può osservare e descrivere la società, ma non deve in nessun modo farsi portavoce di un’esclusiva dimensione sociale. In tal caso il rischio grave, a dirla tutta, più che l’autoreferenzialità, sarebbe  l’eteroreferenzialità, ovvero il cosiddetto Servo Arbitrio. Beninteso l’arte, in particolare la poesia (che poi è ciò che ci interessa) per mantenersi libera da qualsiasi coercizione ed osservanza coatta deve evitare di rendersi serva non soltanto del Sistema Dominante al momento, ma anche del Sistema Resistente; perché da un punto di vista estetico entrambi danneggiano il principio dell’autonomia dell’arte. Che è per l’appunto quel quid tramite il quale l’arte può dirsi tale, in senso eminentemente estetico – filosofico.

Quando l’arte si fa serva della semiosfera politica, dell’utile e della prassi  rimanendone assorbita e invischiata, allora diventa Fonte, cioè pura testimonianza storica del proprio tempo. E testimonianza storica del proprio tempo, indifferentemente, sono sia Magritte che la merda d’artista, sia Michelangelo che gli acquerelli di Hitler. Testimonianza è Campana, è Magrelli, è Dante ma testimonianza è anche l’imbarazzante Sandro Bondi quando versifica, è anche l’irriverente Benigni quando recita (male) Dante. La distinzione fra la percezione della bellezza e della bruttezza, allora, assume un valore totalmente diverso rispetto al caso in cui fossimo rimasti sul piano eminentemente estetico – filosofico: infatti l’arte contemporanea, l’arte del Novecento, a rigore, bella in senso classico non è (proprio questa fu l’intuizione di Hegel quando parlò non tanto, a rigore filologico, di “morte dell’arte”, quanto di suo “superamento” dopo il Romanticismo, intendendo con ciò il superamento delle cosiddette Belle Arti e del classicismo), ma anzi detiene nella privazione della grazia e della compostezza, nella mostra distorta e stralunata delle odierne umane atrocità la propria “festa” e la propria “forza”. L’arte contemporanea non è, in senso eminentemente estetico – filosofico, bella se non in modo analogico, per spostamento; l’arte contemporanea è testimonianza del tempo, cosa che anche tutta l’arte precedente deteneva l’onere di rappresentare, eppure, oggi, senza l’etichetta adjunctiva della bellezza a tutti i costi; l’arte contemporanea è arte pratica, empirica, d’esperimento in senso etimologico. Ed essendo per questo, spesso ma non sempre, arte brutta in senso estetico (senza attribuire all’aggettivo il minimo valore di giudizio), è il suo valore concettuale che la determina, che la rende piena ed importante. La principale conseguenza è che insomma risulta sempre più difficile distinguere fra arte brutta perché monstrum dei tempi e bruttezza mostruosa tout court.

Occorre allora comprendere bene la differente valenza che il livello delle cose e quello delle parole acquistano sul piano estetico rispetto al piano storico – sociale. Considerarle su un livello di indifferenza letterale le pone sullo stesso piano tutte, ovvero, per dar retta a Wittgenstein, secondo il quale “se al mondo ci fosse una sola cosa, allora non ci sarebbe nessuna cosa”, se tutto è sullo stesso piano, il piano è sparecchiato. Questi sono i due possibili motivi per cui oggi il peggior scribacchino si sente autorizzato all’agorà letteraria: o in quanto si è semplicemente confusa l’arte brutta (che ha il suo perché) con la bruttezza (che ha il suo: “perché?!…”), oppure in quanto s’è perso il piano puramente estetico delle cose (che è interno all’opera) e lo si è inquinato con il piano esteriore (che è intorno all’opera: livello politico, sociale, relazionale, eccetera).

Occorre però precisare, chiaramente, che Sistema Dominante e Sistema Resistente sono i due poli in tensione a chiunque sia postero rispetto al proprio presente: perché quei due sistemi semiosferici li si focalizza sempre dopo, e sempre tramite un atto di consapevolezza critico, indipendentemente da quale siano le proprie convinzioni contemporanee in materia. E certo, si badi bene, possiamo e dobbiamo sempre essere tutti posteri di noi stessi, come a dire oculati e distaccati su un piano eminentemente logico, più che cronologico: questo, in buona sostanza, è il segreto dell’obiettività. Un’obiettività ed onestà intellettuale necessarie, poi, anche ad evitare enormi travisamenti, come quello spesso reiterato sulle pagine delle migliori riviste letterarie, consistente nel ritenere che l’arte debba essere autonoma sì, ma solamente dal sistema di regole ad essa preposte, o ritenute preposte, dal di fuori. Non stiamo qui a disquisire sull’abbaglio conclamato di tale visione naif: è evidente che ad esempio la poesia in quanto arte si differenzia dalla prosa proprio in funzione del sistema di regole che la identificano e autonomizzano in quanto tale, altrimenti non sarebbe nemmeno poesia, ma qualcos’altro.

E allora posso chiudere questo mio breve intervento su un argomento vetusto ma oggigiorno mal digerito, che spero foriero di ulteriori riflessioni in merito visto che, se se ne parla ancora, non è certo risolto, con la considerazione discriminatoria che l’autonomia, nei fatti d’arte ed in poesia, è un presupposto estetico; l’eteronomia, in realtà, un dato di fatto, e in quanto tale, un a posteriori. E fra a priori e a posteriori, il vecchio indovinello dell’uovo o la gallina dovrebbe pacificarsi in virtù di un’ortodossa logica formale.

O no?


[i] Si potrà verificare eventualmente in altre occasioni in che senso egli abbia influenzato la critica successiva fino allo spartiacque dello strutturalismo, in direzione di un netto prevalere dell’autonomia sull’eteronomia e della forma in senso estetico sul contenuto: qui, data la natura degli appunti, non interessa un’ampia panoramica.

[ii] Come è noto, la cosiddetta Grande Estetica di Croce risale al 1902.

[iii] Per esempio opponendosi, in nome dell’intuizione lirica e dell’autonomia dell’arte, al Dante politicizzato, a D’Annunzio, a Pascoli, a Fogazzaro, a Leopardi, al Futurismo e a tutti i “malati di nervi” del Decadentismo e delle Avanguardie Storiche.

[iv] Il quale, per la verità, era stato scritto fra il 1934 e il 1935.


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