Ancora su Cristina, ragazza strana, alle prese con il mestiere di scrivere.

Creato il 12 febbraio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
di Giuseppina D’Amato (continua dalla prima parte).

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Cristina a dieci anni scrisse la sua prima storia. Se la maestra chiedeva: «Cosa vuoi fare da grande?»

Lei rispondeva: «La scrittrice.»

«Perchè?»

«Mi piace raccontare.»

«Scrivere è faticoso. Devi stare seduta tante ore. Non puoi giocare, o uscire con la comitiva.»

«Non importa.» replicava. «Troverò il tempo anche per gli amici.»

«È un lavoro da fame. Le persone non leggono, e gli editori sono in crisi.»

Lei non cambiò idea. Il bisogno di dare  voce ai giocattoli impigliati nei capelli della sua Fantasia era imperioso.

A quindici anni uscire con le amiche non bastava, e pomiciare con il ragazzo non era sufficiente a tenere a bada la fantasia. Le ossessioni e le fobie la tormentavano. E le preoccupazioni cosmiche non erano cosa di poco conto. Narrare era la sola salvezza. Cristina scriveva i suoi racconti  e li sottoponeva al giudizio delle amiche, da cui pretendeva sincerità totale  e critiche impietose.

«Altrimenti siete fuori dalle mie storie!» minacciava.

«Qui la trama non regge.»

«I dialoghi sono lunghi e fanno cagare.»

«Tu parleresti così?»

«Questo personaggio non va bene.»

Imparò così la sua professione.

A diciassette anni, Cristina pensava: “Non sono mica stupidi i lettori. I protagonisti devono amare e soffrire davvero. Le parole, lo stile, la trama, i colpi di scena, il finale sono importanti.”

Giurò di scrivere  romanzi belli, in cui l’incipit prometteva: «Ti farò emozionare.»

Le pagine successive erano un crescente coinvolgimento e desiderare un: «E poi? E poi?» sino all’epilogo risolutivo.

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Featured image, Virginia Woolf in 1927

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