di Michele Marsonet. Molti autori hanno giustamente rilevato i limiti di un libro che nell’ultimo decennio del secolo scorso conobbe un notevole successo. Si tratta de “La fine della storia e l’ultimo uomo”, scritto dal politologo americano Francis Fukuyama e pubblicato in Italia da Rizzoli. Divenuto un bestseller, fu molto discusso in ambito accademico e nei mass media. Ha ragione chi sottolinea che il concetto di “fine della storia” (e delle ideologie), di matrice hegeliana, è del tutto illusorio. Gli esseri umani non possono certo stabilire “se” e “quando” la storia è finita poiché sono direttamente inseriti nel suo flusso. Non lo dominano affatto, ma ne vengono piuttosto dominati.
E’ interessante però notare che nella sua produzione successiva compare un volume altrettanto significativo, anche se meno noto e celebrato. Il titolo recita “Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo”. Scritto nel 2004 e tradotto nel nostro Paese l’anno seguente dall’editore Lindau, è oggi reperibile con una certa difficoltà. Vale tuttavia la pena di parlarne poiché ci fornisce un quadro affascinante dei criteri che hanno indotto – e inducono tuttora – la comunità occidentale guidata dagli Stati Uniti a intervenire in modo diretto, soprattutto militarmente, quando si giudica che uno Stato minacci la stabilità mondiale. O anche nei casi in cui detta stabilità venga messa in pericolo da Stati “collassati”, non più in grado di gestire direttamente i loro affari interni.
Accade allora, secondo Fukuyama, che USA e comunità occidentale abbiano non tanto il diritto, bensì il “dovere” di intervenire quando crisi di quel tipo si manifestano. Al fondo si cela una concezione che implica la diffusione della democrazia liberale sul piano globale. Né risulta essenziale, a suo avviso, che siano sempre e comunque gli USA a intervenire, ferma restando la loro posizione di leadership dovuta a fattori economici e, soprattutto, militari. “La logica della politica estera americana – egli scrive – dall’11 settembre sta trascinando gli Stati Uniti in una situazione in cui o essi si assumeranno la responsabilità di governare gli Stati deboli oppure consegneranno questo problema alla comunità internazionale”.
In un discorso tenuto nel 2002 a West Point, George W. Bush jr negò recisamente che gli USA coltivassero sogni imperiali, ma non esitò ad ammettere che una dottrina allargata della guerra preventiva era in grado di porre gli Stati Uniti nella condizione di governare popolazioni potenzialmente ostili nei Paesi che li minacciano con il terrorismo. Ecco quindi i casi Afghanistan e Irak. Tuttavia la presenza di organizzazioni come al-Qaeda rende tale compito assai più difficile del previsto. La lotta va estesa a una miriade di contesti territoriali seguendo l’ondata degli attacchi terroristici, da Mombasa a Bali a Riad. Se in quelle nazioni i governi locali non risultano in grado di fronteggiare il fenomeno, “occorre stimolare dall’esterno la costruzione dello Stato in Paesi con gravi disfunzioni interne”.
Si giunge dunque al concetto di “state-building”, il vero nucleo del libro. Gli Stati deboli o addirittura “collassati” (si pensi, per citare un solo esempio, alla Somalia) rappresentano una minaccia non solo per se stessi, ma anche per l’intero scenario mondiale. “Gli interventi umanitari degli anni ’90 portarono all’estensione di un potere imperiale internazionale di fatto sugli ‘stati falliti’ del mondo. Gli interventi furono spesso guidati dalla potenza militare americana, ma seguiti, nel nation-building, da un’ampia coalizione di Paesi, principalmente europei, più l’Australia e la Nuova Zelanda”. Ma come mettere in pratica il “nation building” in contesti nazioniali che non hanno le tradizioni democratiche occidentali e, per di più, sono spesso recalcitranti ad adottarle? Fukuyama non esita a notare che, forse, gli Stati si possono costruire deliberatamente ma, “se da questo si genera anche una nazione, è più questione di fortuna che di progettazione”. Dal che consegue che “state-building” e “nation-building” non sono affatto la stessa cosa, e gli europei sembrano esserne più consapevoli degli americani.
C’è da chiedersi, a questo punto, se l’internazionalismo liberale che ha sempre avuto un ruolo di rilievo nella politica estera degli Stati Uniti possa davvero trovare sbocco e soddisfazione in una strategia come quella appena delineata. Perché esiste, com’è noto, anche l’eterogenesi dei fini. E’ rarissimo che una politica estera raggiunga con precisione proprio gli obiettivi che si proponeva di conseguire.
Passando agli anni più recenti, vediamo che il quadro non muta molto quando il bastone del comando passa a un Presidente americano appartenente a un altro partito. La strategia delle “primavere arabe” promossa da Barack Obama e Hillary Clinton ha dapprima suscitato entusiasmi stellari, per poi diventare fonte di dubbi e recriminazioni. Non è affatto chiaro se davvero si tratti di “primavere”, visto che in Tunisia ci sono seri rischi di veder regredire la condizione femminile, mentre quasi ovunque nell’area l’instabilità è cresciuta. Al punto che molti si sono chiesti se davvero valga la pena di rovesciare Assad quando è noto che nessuno sa quali siano le forze destinate a sostituirlo (la stessa situazione della Libia e della guerra “per procura” contro Gheddafi).
Un quadro, insomma, tremendamente complicato, che il volume di Fukuyama ha il merito di tratteggiare con lucidità senza tuttavia fornire risposte convincenti. Non è sufficiente dire che “le nazioni devono essere in grado di costruire istituzioni statali non solo all’interno dei propri confini ma anche in altri Paesi più disorganizzati e pericolosi”. Il problema è “come” farlo e con quali strumenti. Sarebbe forse più ragionevole ritornare a un sano realismo politico e, senza sbandierare nobili ideali, riconoscere che – come sempre – è la potenza militare egemone a decidere e a contare.
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