Ancora sul ruolo del linguaggio in filosofia. E su Ludwig Wittgenstein.

Creato il 22 maggio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Ludwig Wittgenstein (bottom-right), Paul, and their sisters, late 1890s

di Michele Marsonet. È naturale proporre Ludwig Wittgenstein come figura emblematica della riflessione filosofica contemporanea sul linguaggio, poiché egli viene unanimenente considerato come il maggiore rappresentante di quella “svolta linguistica” che ha posto la problematizzazione del linguaggio al centro dell’indagine filosofica del ’900. Con ciò, ovviamente, non intendo affermare che la svolta linguistica e le correnti filosofiche che l’hanno sostenuta (neopositivismo logico e filosofia analitica) siano le uniche tendenze degne di considerazione nel panorama filosofico contemporaneo. Tale affermazione sarebbe un’evidente falsità, dal momento che vi sono altre tendenze e altre correnti – dall’esistenzialismo alla fenomenologia, e dallo storicismo al marxismo in tutte le sue varie manifestazioni – che non attribuiscono all’analisi del linguaggio un ruolo primario (pur se alcune di esse – basti pensare all’ermeneutica di ascendenza heideggeriana – sono parimenti interessate al “fenomeno linguaggio”).


Trattando il tema “Il ruolo del linguaggio nella filosofia contemporanea”, si è in pratica costretti a parlare di filosofia analitica e, per l’appunto, di Wittgenstein. Nel presente contesto mi limito a delineare l’impalcatura di base del pensiero wittgensteiniano. Nel primo dei suoi capolavori, il “Tractatus logico-philosophicus”, il pensatore austriaco afferma in sostanza che l’intera filosofia tradizionale deve essere rigettata in blocco poiché essa si rivela, a un esame attento, un continuo “abuso del linguaggio”. Come i neopositivisti, che del resto si ispirarono in larga misura a lui, il primo Wittgenstein sostiene che soltanto gli enunciati della scienza sono dotati di senso; ne consegue che compito della filosofia non è produrre proposizioni filosofiche, bensì chiarificare le proposizioni scientifiche la cui forma logica “si mostra”.

Nonostante ciò, scambiare Wittgenstein per un neopositivista costituisce un grave errore. L’anti-metafisicismo di bandiera dei membri del Circolo di Vienna è scarsamente compatibile con le sue concezioni, secondo le quali dobbiamo tacere di tutto ciò su cui la scienza resta silenziosa, ma resta inteso che le cose di cui la scienza non parla sono quelle che più contano nella nostra vita. E infatti il “Tractatus” si conclude con una affermazione che è, al contempo, celeberrima, affascinante e assai sibillina: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.

Qual è il senso di una frase così oscura, sulla quale sono stati versati fiumi d’inchiostro? Per comprenderlo, dobbiamo notare che per Wittgenstein il significato del lavoro filosofico è essenzialmente “etico”. Certamente l’analisi linguistica e la logica sono importantissime, in quanto ci consentono di fissare i confini del “dicibile”; ma tali confini vanno delimitati proprio per proteggere un “ineffabile” di cui il nostro linguaggio, a causa dei suoi limiti intrinseci, non ci consente di parlare in modo significante (egli afferma infatti, nel “Tractatus”, che “i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo”).

Si tratta, come si può facilmente notare, di una posizione ben diversa da quella di coloro che, come i neopositivisti, confinano il senso nell’ambito della scienza, né paiono poi così infondate alcune interpretazioni che vedono il primo dei due capolavori wittgensteiniani percorso da una sorta di afflato mistico. Occorre dunque riflettere e trarre una qualche morale. I neopositivisti si erano ispirati al filosofo austriaco nel condurre la loro battaglia contro la metafisica, salvo poi accorgersi che, per il loro ispiratore, la metafisica era importantissima: egli si limitava a rammaricarsi per il fatto che i limiti del linguaggio non ci consentono di parlare in modo significante dei problemi che più dovrebbero starci a cuore. Il che, naturalmente, toglie alla battaglia antimetafisica dei neopositivisti gran parte della sua forza d’urto.

Ho prima affermato che Wittgenstein può essere considerato come il principale esponente della filosofia analitica del ’900. Tuttavia una domanda, a questo punto, si impone: che cos’è la “filosofia analitica”? Come il nome stesso suggerisce, la filosofia analitica procede usando il metodo dell’analisi, cioé riducendo gli elementi complessi del linguaggio e della realtà a quelli più semplici al fine di ottenere una migliore comprensione. La filosofia, quindi, ha un carattere “riduttivo”, e deve – secondo gli analitici – adottare il metodo impiegato dalle scienze naturali come la fisica e la chimica, anche se il suo ambito d’indagine è ovviamente diverso.

Ad esempio, per fornire un’analisi chimica o fisica di qualche oggetto lo scienziato lo “riduce” ai suoi elementi costitutivi più semplici per rivelarne la vera natura. In filosofia, la nozione di analisi ha un’applicazione più vasta, includendo sia i concetti che le cose. Una migliore comprensione del carattere della filosofia analitica si può ottenere formulando i due assiomi fondamentali su cui essa si regge:

(a) La vera natura del mondo viene rivelata dalla comprensione della natura del pensiero.

(b) A sua volta, la vera natura del pensiero viene rivelata dall’analisi della sua espressione linguistica.

Occorre pertanto notare che la nascita della filosofia analitica segna il declino delle varie forme di neoidealismo hegeliano che dominavano la filosofia tedesca e inglese negli anni a cavallo tra ’800 e ’900, ragion per cui si dice anche che la filosofia analitica nasce dalle ceneri dell’idealismo. Per gli idealisti la realtà è “una”, ed essa ha carattere spirituale (o mentale). Per i fondatori della filosofia analitica, invece, valgono le seguenti tesi fondo:

(i) La realtà (ivi incluso il pensiero) è indipendente dalla mente.
(ii) La realtà è composta da una molteplicità di oggetti separati, e le relazioni tra questi oggetti sono, esse stesse, reali.
(iii) La nostra conoscenza della realtà non è unitaria, ma frammentaria.

Possiamo quindi comprendere la realtà solo esaminando il linguaggio. I mattoni che formano la realtà sono i termini (come “tavolo”, “libro”, “porta”, etc.) i quali, combinati tra loro, formano le proposizioni (ad es.: “il libro è sul tavolo vicino alla porta”). Le proposizioni, a loro volta, costituiscono “oggetti del pensiero”. Quando noi conosciamo tali oggetti del pensiero, entriamo in contatto diretto con il mondo. Ne consegue che i pensieri “veri” costituiscono la struttura del mondo (realtà). Naturalmente, per dare una visione completa della filosofia analitica, dovrei parlare di molti autori, tra i quali è importante citare almeno Bertrand Russell. Tuttavia non posso farlo per ragioni di spazio, e concentro quindi il discorso su Wittgentein.
Egli afferma dunque, all’inizio del “Tractatus”, che:

(A) Il mondo è tutto ciò che accade.
(B) Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose.

E’ tuttavia importante rammentare che Wittgenstein non sta dicendo che non ci sono “cose” nel mondo; egli intende soltanto notare che le cose debbono combinarsi tra loro (formando quindi i “fatti”) affinché il mondo possa esistere:

(C) E’ essenziale alla cosa poter essere la parte costitutiva d’uno stato di cose.

Le cose, pertanto, non esistono indipendentemente dai fatti, e viceversa. Il modo in cui le cose si combinano è ciò che dà luogo a un fatto. Si immagini, a mo’ di esempio, di avere un libro, un tavolo e una stanza che si combinano tra loro in un certo modo formando un fatto come (a), mentre gli stessi oggetti, disposti in modo diverso, formano un fatto come (b):

(a) Il libro è sul tavolo nella stanza.

(b) Il tavolo è sul libro nella stanza.

Da ciò possiamo immediatamente capire perché i fatti dipendono dalle cose (e dalle loro combinazioni). Tuttavia, in maniera analoga, Wittgenstein pensava che anche le cose dipendessero dai fatti. Pertanto, sarebbe impossibile immaginare qualche cosa indipendendentemente da tutte le situazioni possibili (vale a dire, da tutti i contesti fattuali), dal momento che la nostra comprensione della natura di una cosa dipende dal conoscere in quali tipi di situazioni essa può esistere e in quali modalità:

(D) Se conosco l’oggetto, conosco anche tutte le possibilità del suo occorrere in stati di cose.

Ogni volta che pensiamo a un oggetto, dobbiamo pensarlo in quanto inserito nel contesto di tutti i possibili stati di cose, e ciò significa che non possiamo neanche immaginare come una cosa possa esistere al di fuori di ogni possibile situazione. Per esempio, se consideriamo un oggetto come un libro, la sua essenza dipende dalle possibili situazioni di cui esso potrebbe (o non potrebbe) far parte. Ed è così che un libro potrebbe essere letto, bruciato o aperto, ma non bevuto o guidato.

Questa tesi della interdipendenza tra fatti e cose condusse Wittgenstein a sostenere che sono proprio le essenze degli oggetti a determinare la forma del mondo (il quale, giova notarlo, non è una semplice collezione di cose). La natura essenziale degli oggetti è dunque la base di tutto, e determina altresì quali fatti possono esistere e quali no. Così, tornando all’esempio precedente, data la natura dei tavoli, dei libri e delle stanze, non è possibile avere una combinazione di cose (un fatto) come:

(c) La stanza è sul libro nella tavola.

Tutto ciò che è nel mondo (i fatti) è fissato dall’essenza stessa del mondo (che non è empirica), la quale a sua volta determina in quali modi le cose possono combinarsi tra loro. Tale essenza è data dalla natura dei suoi oggetti (e dalle loro possibilità combinatorie):

(E) Se sono dati tutti gli oggetti, sono dati con ciò tutti gli stati di cose possibili.

Gli oggetti, per la loro stessa natura e per i modi in cui possono combinarsi, formano il mondo. Tuttavia, è importante rammentare che essi possono dar vita a una molteplicità di possibilità. Ciò significa che, al di là del modo contingente in cui il mondo si presenta ai nostri occhi, giace una “forma logica del mondo” che è fissa e immutabile:

(F) E’ manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa – una forma.

Per spiegare questa visione molto astratta, possiamo ricorrere a un’analogia tratta dal gioco del Lego. Supponiamo che il mondo sia composto da pezzi di Lego. Finché tali pezzi non sono disposti in un certo modo, non c’è alcun mondo di cui parlare. Tuttavia, tutti i mondi possibili che possiamo comporre con i pezzi suddetti sono determinati dalla natura dei particolari componenti del Lego con i quali dobbiamo lavorare. Più precisamente, le loro forme individuali determinano quali costruzioni possibili siamo in grado di fare. Dunque, “la logica del Lego” viene rivelata descrivendo tutte le combinazioni che sono consentite. Ma tale “logica del Lego” è altresì determinata dai pezzi individuali che abbiamo a disposizione. Vale a dire: l’insieme delle regole di combinazione è data dalla natura degli stessi pezzi.
Cerco quindi di riassumere quanto si è sin qui detto:

(1) I fatti del mondo altro non sono che i modi in cui gli oggetti semplici stanno in relazione tra loro (senza scordare che vi sono anche i modi possibili in cui potrebbero o potrebbero essere stati correlati).
(2) Questi oggetti semplici formano la sostanza indistruttibile di tutti i mondi possibili.

Abbiamo, quindi, la “intrascendibilità” del mondo. Esso non viene creato e non si può distruggere: semplicemente “è”. Non possiamo staccarci dal mondo, né possiamo averne una visione “dal di fuori”, giacché un “di fuori” non c’è. Tutti coloro che, nella storia del pensiero filosofico o religioso, hanno voluto parlare del distacco dal mondo, l’hanno fatto ricorrendo a immagini “del” mondo. Così del paradiso o dell’inferno cristiano, e così dei miti platonici.


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