Il suo j'accuse racconta il malessere nostalgico del creativo emigrato – nel suo caso – in Francia, perché i clienti italiani non sono in grado di apprezzarlo. Hastie punta il dito contro i clienti italiani: accusati di non essere interessati alla creatività vera, ma sempre e solo al prodotto; di non capire e non voler capire l'innovazione. La polemica è però anche per le agenzie, colpevoli di regalare creatività e far pagare il media, spostando dunque l'asse del nostro lavoro dall'idea al semplice contenitore: perché sbattersi, dice, quando basta una gnocca in primo piano per convincere il cliente? I reparti creativi italiani sono come tramezzini di solo pane: direttori creativi da una parte, statisti sottopagati dall'altra (ricordate la polemica su FlashArt?).
Le parole colpiscono, è innegabile. Ma ancor di più colpiscono i fatti dietro a queste aspre critiche: fatti che conosciamo tutti, perché li sperimentiamo tutti i giorni. Come il dover spiegare al cliente perché il design di un logo costa così tanto; o le richieste assurde del titolare d'azienda settantenne, fermo alla comunicazione da sagra di paese; poi le fatture contestate e mai pagate, i ritardi nei saldi e le richieste di sconti neanche fossimo al supermercato; e la percezione, infondo, che il nostro mestiere sia visto come uno scherzo, un hobby, una bella passione; e che chiunque, dopo tutto, è creativo e può avere una bella idea (la butto lì: di certo il crowdsourcing creativo non aiuta); e chiunque può scaricare una copia pirata di Photoshop e imparare ad usarlo.
C'è scetticismo nei confronti del nostro lavoro. Dettato, inutile negarlo, anche dal comportamento spesso vigliacco dei nostri colleghi nei gloriosi '80 e '90, che giravano in BMW e staccavano fatture milionarie fumando erba di prima qualità e urlando "concept creativo" ogni dieci minuti. E poi la Rete, nostra grande alleata ma peggior nemico, che ci costringe ad una costante guerra tra poveri nel difendere le nostre professionalità contro orde di ventenni con le idee confuse; e anche quando chiediamo cifre oneste, ci sentiamo trattare da ladri, perché nel nostro lavoro infondo infondo ci si diverte un sacco e non si suda neanche un po'.
E in che modo potremmo mai bloccare un giocattolo, se non tutti insieme? Ma per un creativo che fa un passo indietro per protesta, decine di altri sciacalli del sottocosto piombano sul cliente per sbranarlo. E il cliente di fronte al miraggio del pagar poco rinuncia alla qualità del lavoro, alla professionalità del creativo con le palle, sputtanando di fatto in un sol colpo il nostro lavoro e la nostra richiesta di diritti. È un gioco al massacro, dove vince chi svende la propria dignità.
Cosa ci resta, dunque? Al netto delle polemiche, solo una cosa: lavorare bene ed essere onesti. Cultura, conoscenza, formazione, rispetto delle scadenze sono caratteristiche irrinunciabili; la fiducia del cliente va conquistata anche sapendo dire di no a certe richieste, ma bisogna essere in grado di spiegare, motivare, circostanziare le proprie scelte di creatività; non chiediamo più soldi di quanto davvero meritiamo, non spremiamo il limone fino all'ultima goccia solo perché ne abbiamo la possibilità; siamo chiari e trasparenti, richiediamo firme e contratti, chiariamo subito col cliente chi siamo e cosa facciamo; contribuiamo, dannazione, a far comprendere il vero valore dell'idea al di là delle ore di lavoro impiegate o del costo di realizzazione di un esecutivo.
Non credo basterà, perché c'è troppo da cambiare, ben più di questo. Ma è un piccolo passo, e possiamo farlo subito.
(PS: la seconda immagine arriva da qui, è solo che mi sembrava appropriata)