Ancore di pietra fra archeologia ed etnografia, di Mario Galasso

Creato il 28 novembre 2015 da Pierluigimontalbano
Ancore di pietra fra archeologia ed etnografiadi Mario Galasso

   Fra le varie tipologie di materiali che il mare di continuo restituisce ad archeologi e no una in particolare ha sempre affascinato per la vetustà e per quanto di intrinseco racchiude in sé: l’ancora di pietra. Le tipologie della stessa sono ormai ben documentate dai noti lavori di Papò, della Frost, di Kapitän e di altri, fra i quali Edoardo Riccardi che ne fa oggetto di un interessante riepilogo  e da ultima Donatella Salvi in un recentissimo lavoro. Un po’ dappertutto si trovano citati rinvenimenti di attrezzi riconosciuti come ancore litiche, raggruppabili per lo più in tre grandi tipologie:- pietre piatte con uno o più fori, nei quali si suppone siano stati infilati spezzoni lignei e siano state fissate le corde di tenuta (calumi); - pietre più o meno informi, ma in genere oblunghe, al centro delle quali si nota in genere un incavo toroidale per fissarvi la fune, utilizzate tout-court come corpi morti (mazzere); - pietre a sezione rettangolare e di notevole lunghezza, spesso a forma di mezzaluna allungata, con base piatta ed incavo al centro, non propriamente ancore ma parti di esse, e cioè marre fissate al fuso in legno per appesantirlo ed appoggiarlo orizzontalmente al fondo.   Tra il primo ed il secondo gruppo si colloca un sottogruppo di incerta valutazione, costituito da pietre informi utilizzate come ancora o corpo morto (forse di emergenza) che presentano la possibilità di essere trattenute da un cavo per la loro intrinseca conformazione (fori passanti o restringimenti di sezione). In ogni caso, non presentano che minime tracce di lavorazione per adattarle all’uso e difficilmente  possono essere riconosciute come ancore, a meno che non siano rinvenute in contesti archeologici subacquei omogenei.
   Convenzionalmente si suppone che il primo gruppo sia di origine molto antica, risalente probabilmente al neolitico ed andato avanti almeno fino all’età del ferro; che il secondo sia invece praticamente indatabile per il suo utilizzo continuato fino ad oggi come corpo morto per piccoli natanti; che il terzo abbia preceduto le marre di piombo romane (che costituiscono la sua naturale evoluzione) nelle ancore convenzionalmente (e impropriamente) chiamate di tipo Ammiragliato.   Si vuole qui esaminare un particolare tipo di ancora del primo gruppo: quella consistente in una pietra in cui lo spessore è notevolmente inferiore ai valori di lunghezza e larghezza, tanto da poterla definire (in genere) subrettangolare o subtrapezoidale o subtriangolare. Senza entrare nel merito in ordine alla definizione del rapporto fra le tre misure (onde poterla definire pietra piatta o con felice termine francese, dalle), si nota che questi manufatti presentano uno, due, tre o più fori passanti, in genere uno singolo opposto a due o più. Praticamente sempre, quando la forma è subtrapezoidale o subtriangolare, il foro singolo è dalla parte apicale o più stretta. Accade spesso che vengono ritrovate pietre presentanti un solo foro. Ovviamente in questi casi è facile riconoscere la pietra come un manufatto;  più difficile è dire che tipo di manufatto, contrariamente a quanto se ne possa pensare.   Infatti, di tali pietre se ne trovano sia in terra che in mare. Per la seconda ipotesi chiunque sarebbe indotto a parlare di ancora, ma nel primo caso?
Le pietre con un solo foroRitrovamenti marini. Nella quasi totalità le pietre piatte con un unico foro vengono trovate senza contesti archeologici che possano far azzardare datazioni. In genere vengono recuperate in bassi fondali (massimo 15 metri), con poche eccezioni in sud Italia. Se ne trovano di dimensioni relativamente piccole, di peso generalmente fra i 5 ed i 70 kg (con le debite eccezioni anche fino a due quintali), il che fa pensare ad un utilizzo prevalente per piccole imbarcazioni. Sfortunatamente gli archeologi in genere sono dei pessimi marinai, altrimenti da lungo tempo ci si sarebbe resi conto che non è possibile pensare di tenere ferma sotto l’azione del vento e del mare un’imbarcazione sia pure minuscola con un’ancora consistente in una pietra piatta che ara sul fondo. Sempre sulla scia di questa constatazione, si fa presente che da sempre è uso in mare di legare un peso (mazzera) al calumo che collega l’ancora all’imbarcazione, in genere verso la metà della sua lunghezza, al fine di far funzionare il peso come una molla e di tenere il cavo più orizzontale e parallelo al fondo per aumentare la tenuta dell’ancora. Perciò si azzarda qui l’ipotesi che almeno le pietre più piccole con un foro che via via si ritrovano abbiano avuto (anche o solo) questo utilizzo, come tuttora in uso fra i pescatori, e che sia veramente difficile datarle in assenza di altri elementi. Si può presumere che le pietre più grandi e pesanti possano essere state utilizzate come corpo morto in specchi d’acqua ritenuti in genere tranquilli, utilizzando per la navigazione ancore più elaborate e cioè munite di pali di legno passanti in più fori opposti a quello di aggancio del calumo per una migliore tenuta sul fondale. Al giorno d’oggi si usa ancora lo stesso sistema, utilizzando cemento armato colato in una forma e munito di maniglione in ferro al posto di un foro passante.    Per finire, la tipologia di questi reperti varia al variare delle dimensioni e del peso: i più piccoli hanno in genere forma più regolare, mentre i più grandi sono spesso asimmetrici.
Ritrovamenti terrestri. Astraendo dai pochi ritrovamenti in contesti di santuari marittimi ove le stesse hanno l’evidente riutilizzo come offerta votiva (in ricordo del primario utilizzo come ancora, raramente con aggiunta di segni incisi e/o decorazioni), tali pietre forate sono nella quasi totalità adespote, senza riferimenti cronologici e culturali. Di difficile reperimento, lo studioso distratto le riconosce solo in collezioni etnografiche in genere private. Pomey stesso dichiara che la tabella tipologica è stata approntata in massima parte sulla base dei donarii, ed evidentemente si possono datare le ancore in base allo strato di deposizione (ove possibile) ma non la durata delle forme nel tempo. Ma cosa ci farebbero in terra queste pietre? Quale utilizzo secondario (ex voto o signaculaa parte) potrebbero aver avuto al di fuori di un contesto marittimo?
La trebbiatura dall’antichità al secolo XX: un esempio regionale   Gli etnografi conoscono bene un particolare attrezzo usato dai contadini per battere il grano sull’aia fino a non molti anni fa consistente per l’appunto in una pietra piana con un foro ad una estremità, che viene trascinata da uno o più bovini od equini a mezzo di una fune o di una catena sui mannelli di grano gettati su uno spiazzo lastricato; talvolta nel foro è infisso un paletto collegato ad un timone a cui è aggiogato l’animale.   La pietra usata per questo scopo ha però una sostanziale differenza con quella usata per ancorarsi: presenta sempre, infatti, almeno una superficie più liscia, e frequentemente (ma su ciò ritorneremo) su questa vi sono incise scanalature che servono a migliorarne il rendimento. Le scanalature sono orizzontali come le righe di un testo o diagonali, parallele fra loro, o formano dei disegni geometrici. Talvolta compaiono lettere maiuscole indicanti il proprietario. Circa il materiale usato, è costante l’utilizzo di calcare, granito e pietre dure in genere (basalto nel sud Italia). Il calcare ed il granito risultano preferiti oltre che per durezza e resistenza anche per grana e per lavorabilità, quindi migliori come rendimento e durata.   Normalmente questi attrezzi litici vengono ancora reperiti in vecchi insediamenti agricoli, spesso abbandonati in un angolo dell’aia. Alcuni sono entrati nelle collezioni di musei di cultura contadina e sono in esposizione un po’ dappertutto. La pietra da trebbia è stata in genere utilizzata in Italia fino all’epoca della seconda guerra mondiale in aree marginali, pedemontane, con forte discontinuità di livello, con produzioni limitate di frumento ad uso familiare o di frazione, che non giustificavano spese ed investimenti (trebbiatrici e mulini) (Tav. n. 3). L’areale geografico ci viene descritto dallo Scheuermeier (SCHEUERMEIER  P., 1943, pp. 129-130) come molto esteso, e ne fa fede l’elenco di termini dialettali riportato, che copre praticamente tutta l’Italia (vedi oltre, allegato 1 e Tav. n. 2).   Si può affermare che se in un contesto agricolo appropriato si rinviene una pietra con le caratteristiche sopra enunciate e che in particolare presenta una faccia liscia e piana la stessa può essere o no una pietra da trebbiatura; ma se sulla faccia liscia e piana vi sono incisioni e scanalature (che possono essere di vario genere) è molto probabile che lo sia.   Circa la cronologia non esistono ipotesi, perchè per quanto risulta allo scrivente non si conoscono a tutt’oggi pietre da trebbiatura rinvenute in contesti di scavo, o per lo meno non sono state riconosciute come tali. Non risultano studi in materia che escano dalla semplice descrizione della forma e dell’areale di distribuzione. L’uso di questo attrezzo sembrerebbe perdersi nella notte dei tempi, e si potrebbe d’istinto pensare di farlo risalire ai primordi della coltivazione dei cereali ed all’addomesticamento dei bovini ed equini. Appare infatti così primitivo (e nel contempo efficace) questo sistema e nello stesso tempo  indatabile.   Non è nelle finalità di questo piccolo lavoro addentrarsi nel settore dell’etnografia se non per lo stretto necessario. Occorreva quindi limitare al massimo il campo di indagine, estendibile sicuramente almeno su tutto l’areale Mediterraneo; per questo è stata focalizzata come exemplum la Sardegna, che più a lungo di altre regioni italiane ha conservato usi e costumi antichi di secoli. Per quanto in seguito si vedrà il riferimento era  necessario.
   In area sarda è documentata archeologicamente la presenza di grano (triticum monococcum e triticum dicoccum) già nella fase cardiale del neolitico antico, ma non sappiamo come avvenisse la coltivazione e la trebbiatura. In epoca posteriore (età del bronzo e del ferro) è attestato il ritrovamento di triticum vulgare e triticum dicoccum oltre che di hordeum vulgare in contesti nuragici.  Non risultano documentati rinvenimenti di pietre da trebbiatura o di attrezzi da riconoscere come tali nel vasto campionario di materiali relativi al ciclo del pane (macine, pestelli, falci, ecc.).  Per questo particolare oggetto occorre essere molto cauti in quanto, sempre per parlare della Sardegna, per i ritrovamenti di chicchi carbonizzati di grano e orzo non si dovrebbe escludere in via ipotetica un utilizzo di queste pietre da trebbiatura almeno fin dall’età del bronzo. Uscendo dall’ambito sardo nell’ambito della koinè mediterranea, numerose sono le raffigurazione egiziane di lavori agricoli legati al ciclo del grano; tra le più antiche, in una tomba di Saqqara (circa 2500 a. C.) è raffigurato un gruppo di 11 asini in fila , incitati da un uomo con un bastone mentre trebbiano cereali non mietuti (ZENNER F. E., 1966, p. 349, fig. 221). Ancora si segnala un dipinto nella tomba egiziana di Menna, scriba intendente delle terre coltivate sotto Thutmosis IV (1425?-1408 a.C.) durante la XVIII dinastia. La tomba, che si trova sul versante orientale delle colline desertiche situate nella regione dell’attuale Sheick Abd el Qurna presso l’antica Tebe è adornata da raffinate  raffigurazioni di lavori agricoli; nel settore che illustra la trebbiatura del grano (Tav. n. 5) si vede un operaio con un ramoscello nella mano destra nell’atto di incitare quattro buoi che calpestano davanti a lui il grano non mietuto mentre un altro operaio con una forca di legno a tre rebbi sposta le spighe atterrate. (MICHAILOWSKI K., 1990, fig. 422, p. 395). Non è fatto uso di pietra da trebbiatura. Si può pensare che trebbiare il grano senza preventiva mietitura sia un metodo più antico o contemporaneo ad altri.  Sorge in ogni caso la domanda su quando entri nell’uso (anche alternativo) l’attrezzo litico e se davvero risale ad epoca remota. Pur tenendo presente le differenze culturali fra Egitto e Sardegna, la tomba di Menna si colloca alla fine del XV secolo a.C. mentre nell’isola siamo in pieno Bronzo medio, nella fase Sa Turricula (fase II nuragica). Infine, in Palestina  è attestato dalla Bibbia l’uso del bastone per battere il frumento: Ruth “batte quel che aveva spigolato” (Ruth, 2, 17, riportato in FORBES R. I., 1962).   Alcuni centri più recenti, scavati solo parzialmente, sono ancora in attesa di pubblicazione esaustiva (fra questi, importanti Sant’Imbenia e Sa Tanca ‘e sa Mura). Poco si conosce sulla cerealicoltura del periodo cosiddetto punico, per perdurante assenza di dati paleobotanici  e relativa mancanza di dati archeologici diretti: la presenza di coltivazione di cereali è provata però da tutta una serie di indizi fra cui ad esempio le spighe di argento del Nuraghe Genna Maria di Villanovaforru (VII secolo a.C.). Non ultimo, si ricordano le spighe che compaiono sulle emissioni monetali del 241-238 a.C. a ricordare pace e produzione di grano.   Un rapido excursus sulle fonti classiche ci informa che varie erano le metodiche utilizzate per la trebbiatura nel mondo romano: Plinio parla dell’utilizzo di triboli, di cavalli o di pertiche. Il tribolo ci viene descritto da Varrone come una tavola munita di denti di ferro o di pietre aguzze che viene trainata sul grano da battere a mezzo di bovini mentre i cavalli sono utilizzati generalmente legati in gruppo e costretti a calpestare il grano girando in circolo intorno ad un palo al centro dell’aia. Le semplici pertiche si evolveranno in seguito nel coreggiato o correggiatoconsistente in due lunghi bastoni, legati fra loro ad una estremità, che il contadino usa per percuotere le spighe. Columella nomina le tregge usate dai Latini per questa operazione, senza meglio specificare. Circa a metà del V secolo d.C. Rutilius Taurus Aemilianus (meglio conosciuto come Palladio) possessore di una tenuta a Neapolis in Sardegna descrive vivacemente come organizzare una villa rustica, indirizzandosi visibilmente a ricchi imprenditori agricoli; la tecnica da lui descritta per la trebbiatura è il calpestamento con bovini (o ungulis pecorum, o propter armenta quae cum teretur inducimus), come in VARRONE, De R.R. I, 52, 2, COLUMELLA L. G. M., DE R.R., 2, 10, PLINIO, N.H., 1499, 18, 298, benchè gli antichi avessero conosciuto la battitura con le pertiche o con macchine speciali (tribulum e traha). Non viene fatto cenno a pietre da trebbia. Come si vede, non vi sono attestazioni dell’utilizzo di pietre come quelle di cui si parla in questo lavoro. Ciò a nostro avviso non vuol dire che non fossero conosciute ed utilizzate, ma solo che non ve ne sono tracce documentali sia per i contesti del latifundus di epoca imperiale e tardo imperiale con alte produzioni di grano che per le medie e piccole proprietà di tipo catoniano ai cui  si rivolge Plinio.   I contesti di scavo d’altronde non aiutano: abbiamo una grande quantità di necropoli, pochi scavi urbani, pochissimi contesti agricoli. Perciò è relativamente poco il materiale strumentale d’uso finora indagato archeologicamente e totalmente nullo quello relativo all’operazione della trebbiatura del frumento.    Allo stato della ricerca non sono state finora reperite fonti anteriori al secolo XVIII che parlassero in specifico dell'argomento. Alla fine del settecento Gemelli descrive la trebbiatura fatta generalmente (in Italia) utilizzando più comunemente uno scanalato cilindro, o colonna di gran peso, rotolato da un cavallo a grado dell’uomo, che sopra vi si asside; ancora, or la Sardegna adopra la cavalla precisamente senza trebbia, o treggia, o rubatto, che quasi non conosce, e senza il correggiato, che ignora generalmente.(…) Ma poi, e non usan eglino in Sardegna certuni per difetto di danajo, e per pochezza di raccolto, di trebbiare la loro piccola messe con qualche informe pietra, che trascinar fanno da’ buoi per l’aia. Or questi certo sbucciano il frumento. Perfezionisi dunque tal metodo nella forma, e rendasi universale, che senza dubbio sbuccierassi il sardo frumento, quando anche fusse più, che infatti non è resistente.   L’autore perciò afferma che i contadini poveri e chi ha un misero raccolto usa qualche informe pietra trascinata da buoi; il metodo gli sembra buono e suscettibile di perfezionamento. Manca dell’Arca quasi contemporaneamente osserva lo stesso procedimento che è uno dei tre al suo tempo in uso nell’isola. Saint-Severin nel 1821 invece non lo attesta mentre il La Marmora parla dell’utilizzo di grosse pietre che si fanno trainare da buoi in alternativa ad altre metodiche.    Nella prima metà del XX secolo Le Lannou riporta l’uso di una grossa pietra piatta (anni 1931-1937) mentre Scheuermeier nell’ambito di uno studio globale sull’Italia e la Svizzera reto-romanza condotto fra il 1919 ed il 1935 (vedi all.1) rileva l’uso della pietra da trebbiatura dappertutto in Sardegna tranne che agli estremi sud e nord. Wagner parla di due tipi di trebbiatura: con una pesante pietra piatta o un rullo di pietra  o con molte cavalle legate in fila.   Ai nostri giorni vari autori si sono interessati del problema; il più conosciuto, l’Angioni, ne presenta anche una ricostruzione grafica. Tra gli ultimi, ne parla Antonina Cinellu in un lavoro molto specifico relativo alla località di Tresnuraghes (Nu), riportando sia una tradizione orale evidentemente ancora viva nella zona indagata sia la terminologia (triulare su drigu) strettamente collegata al termine latino relativo allo strumento usato (tribulum, vedi note 13 e 14) ed al grano (triticum).   L’analisi dei termini ancora in uso (vedi note 23-24, e all.1) dimostra che il tribolo di Plinio e Varrone era ben conosciuto in epoca romana in Sardegna, tanto da lasciare traccia (oltre che ovviamente nella lingua italiana con il verbo trebbiare e tutti i suoi derivati) nelle lingue di tutta l’isola (con le varie differenze locali). Solo nel Logudoro l’attrezzo trainato viene chiamato pietra dell’aia (pèdra ‘ess’ardzòla) con esplicito riferimento alla pietra piatta di cui parliamo. Resta da appurare se nell’antichità in Sardegna oltre al tribolo fosse in uso l’altro strumento in quanto come si è visto la pietra da trebbia compare documentalmente solo dal settecento in poi con successivi perfezionamenti.    Ciò che le fonti scritte raramente riportano è però un altro aspetto del rapporto del contadino con il cereale. Ci si riferisce ai problemi relativi al controllo padronale della produzione del frumento che sempre hanno investito i contadini non proprietari dell’appezzamento coltivato, mentre per i piccoli possidenti il controllo statale è quasi sempre stato soffocante. In passato era il dominus, il signorotto locale a pretendere la sua parte di raccolto; in età contemporanea, nella prima metà del XX secolo e in specie dal 1911 al 1945, i controlli governativi sul grano prodotto hanno lasciato strettissimi margini di guadagno ai contadini a causa dell’economia di guerra e del  regime fascista (ammassi obbligatori, del resto già in uso coi monti granatici dei due secoli precedenti). Fonti orali sarde ricordano con nitidezza lo scrupoloso controllo effettuato dalle camice nere sulla trebbiatura, sugli ammassi, sui mulini. Vengono citati molti episodi di controlli minuziosi degli attrezzi di lavoro, delle macine familiari (per vedere se erano sporche di farina, in qual caso era evidente l’esistenza di frumento non denunciato). Infatti è documentata oralmente l’esistenza di operazioni di trebbiatura di frodo, effettuate di notte, utilizzando i mezzi rudimentali in possesso dei contadini, quali appunto la pietra da trebbia. Ed è riferita anche la ricerca affannosa di questi oggetti da parte degli incaricati del controllo (forze dell’ordine, squadristi, camice nere) per la confisca e distruzione: testimonianze raccolte dallo scrivente parlano di pietre da trebbia gettate nei pozzi ed in mare.    Sempre per la Sardegna ancora oggi è possibile rintracciare alcuni di questi attrezzi ormai decontestualizzati: in una raccolta privata se ne possono vedere addirittura cinque provenienti dal centro sud dell’isola; mentre si stendono queste note un vecchio contadino dell’oristanese (Cuglieri) ne propone due in vendita a prezzi esosi e fuori da ogni realtà. In ogni caso le pietre da trebbiatura pare abbiano perso oggi la loro motivazione d’essere ed abbiano acquisito una seconda valenza come semplice testimone culturale di un tempo passato e di una pratica colturale desueta.Concludendo, nella remota antichità non vi sono attestazioni archeologiche; in ambito mediterraneo (vicino Oriente) sono documentate altre tecniche di trebbiatura; gli autori romani sopracitati non ne parlano e indicano altre tipologie di lavoro; alla fine del XVIII secolo una “pietra informe” compare nell’opera del Gemelli che vorrebbe perfezionare questo modo di trebbiare. In seguito la pietra si specializza, diviene più lavorata, sempre più regolare, fino a scomparire bruscamente dall’uso con l’avvento della meccanizzazione. Il massimo dell’evoluzione viene colto nella tavola tipologica dello Scheuermeier fra le due guerre mondiali.   Alla luce di quanto sopra esposto, con tutte le cautele del caso, al momento sembrerebbe secondo le fonti finora rintracciate che questo attrezzo non dovesse poi essere molto antico. Tuttavia occorre approfondire la ricerca sulle fonti scritte ed iconografiche, e soprattutto archeologiche per non lasciarsi ingannare da eventuali esempi fuorvianti.
Una pietra da trebbia da Sanluri (CA)   Nel settembre 2000 lo scrivente è venuto in possesso di una pietra da trebbia di sicura provenienza contadina sarda.    Il manufatto (Tav. n. 9 a, b, c, d, e)  del peso di circa 28 kg è stato ottenuto da un pezzo di calcare che è stato grossolanamente sagomato in forma trapezoidale di spessore costante, e presenta le superfici tormentate da abrasioni, solchi, incisioni puntinate e tracce evidenti di lavorazione a scalpello. I lati formano angoli diversi con la base, e la sommità è ad arco di cerchio. L’altezza totale è di cm 57, lo spessore cm 12-13. Poco al di sotto del centro dell’arco di cerchio c’è un foro passante di diametro circa cm 4, arrotondato alle due uscite, da cui parte una gola verso l’alto, più profonda nella faccia che per convenzione chiameremo A. Su questa sono presenti una serie di profonde incisioni, di cui una verticale dalla sommità alla base e quattro orizzontali, parallele fra loro ed ortogonali a quella verticale (una sopra il foro, tre sotto di questo). Nelle incisioni irregolarmente distanziati sono presenti numerosi fori pericircolari profondi da 0,5 ad 1 cm. Sulla superficie della faccia opposta B sono presenti numerosi fori impervi tutti ad andamento diagonale nella stessa direzione e ottenuti come i precedenti per scalpellatura con attrezzo a punta, al fine evidente di rendere ruvida la superficie.  Sulla sommità della pietra è presente un foro impervio di diametro cm 3-4, di profondità ignota perché riempito di cemento e presentante i resti di un quadrello di ferro spezzato di lato cm 0,8. Presumibilmente questo foro dall’orlo svasato e dalla superficie liscia afferisce ad un primo metodo di collegamento e fissaggio, in relazione con dei fori lungo le due gole (quattro disposti in quadrato sulla faccia A ed altri meno leggibili sulla faccia B), nei quali forse erano alloggiati dei chiodi.   Sembra difficile al momento esprimere interpretazioni sul sistema di fissaggio e traino dell’attrezzo; sulla base della documentazione raccolta da Scheuermeier (Tav. n. 1, tipo a) nel foro è inferito un paletto di legno collegato al traino con una fune a metà della sua altezza, quindi dalla parte della pietra che non lavora; nella Tav. n. 7 (Loiano, Emilia) il sistema di fissaggio è costituito da un paletto passante nel foro, collegato al traino con un corto asse dalla parte della faccia che lavora; il collegamento fra timone e asse è snodato. Nell’esempio di Tav. n. 6 da Acquaformosa (Calabria) si vede il giogo ed il timone ma non il collegamento, che si può supporre snodato come il precedente. Per la pietra di Sanluri si può in origine supporre una sorta di timone o presa di legno costituito da un paletto infilato dalla parte B fino alla superficie A e saldamente fissato alla pietra con qualcosa (legno? fune?) inchiodato nella gola A e infine bloccato (ma in che modo?) nel foro impervio che si trova nella parte superiore dell’attrezzo. Non si può neanche escludere a priori la semplice legatura (attraverso il foro) di una fune trainata da uno o due animali di grossa taglia (equidi in genere in Sardegna, ma sono attestati anche bovidi, vedi sopra) ed alloggiata nella gola ad impedirne il rapido deterioramento.    Circa la datazione dell’oggetto, è stato riferito che lo stesso era utilizzato fino agli anni intorno alla metà del secolo dal contadino Piras di Sanluri, e probabilmente dallo stesso fatto (così come le vaschette per abbeveratoio) intorno al secondo quarto del XIX secolo. Ovvio negare qualsiasi possibilità di fraintendimento della pietra con ancore litiche per tutta la serie di notizie raccolte.
L’identificazione   Ritornando ai ritrovamenti marini, se una pietra dalle caratteristiche sopra riportate (solo in tal caso, è bene precisarlo) viene rinvenuta sott’acqua, cosa si deve arguire? A meno che l’oggetto sia stato gettato di proposito in mare come ricordato sopra, con tutta probabilità si tratta del riutilizzo di un attrezzo da trebbiatura che, terminata la sua funzione per cessazione dell’attività lavorativa del proprietario (morte, abbandono, ecc.), o più probabilmente per utilizzo in tempi molto recenti di strumenti meno arcaici per l’operazione di battitura del grano (uso di trebbiatrici e mietitrebbiatrici), con l’avanzare della cosiddetta affluent society ha totalmente perso la sua primitiva funzione e funzionalità convertendosi in un comodo corpo morto per un gozzo o un gommone. Cosa di più pratico e meno costoso di una pietra con un foro a cui legare una cima per ancorare in uno specchio riparato il proprio mezzo di svago estivo? Probabilmente l’ultimo utilizzatore è figlio o nipote di chi ha usato l’attrezzo nella sua primitiva funzione.   Non è detto che le pietre da trebbiatura così come le conosciamo si siano conservate inalterate nel tempo in quanto a morfologia e segni particolari come illustrati nella tabella dello Scheuermeier relativa alla situazione agli inizi del XX secolo, come non è detto che soltanto per i tempi più recenti sia possibile proporre un riutilizzo nautico. Sembra che si possa però tracciare una linea guida per il riconoscimento dell’oggetto partendo anzitutto dall’esame delle superfici; nel caso di primitivo uso agricolo uno o due piani contrapposti devono essere fortemente levigati dall’uso per le specifiche modalità di impiego: continuo trascinamento sull’aia coperta da grano. Nel caso di ancore litiche invece tutte le superfici sono interessate ad urti ed abrasioni e pertanto, a meno di una spianatura e lisciatura intenzionale su una o due facce, sono abbastanza facilmente identificabili. L’ancora al contrario della pietra da trebbia deve rimanere più ferma possibile, e possibilmente incastrarsi sul fondo sotto trazione diagonale. Le superfici vengono così tormentate da colpi che provocano distacchi di materiale, ma non lisciatura solo su una o due facce, semmai su tutto l’attrezzo (per lunga immersione nella sabbia). Per non essere fraintesi, qui non si propone assolutamente di identificare come pietre da trebbiatura riutilizzate tutte le pietre piatte con un solo foro rinvenute sotto il mare; si afferma semplicemente che alcune ancore litiche potrebbero essere in realtà riutilizzi di strumenti agricoli.
   A conoscenza di chi scrive in due casi documentati ancore in pietra con un solo foro molto simili a pietre da trebbiatura sono state trovate sotto il mare: a Punta Nuraghe (N.E. Sardegna) ed alla Punta del Fenaio (Isola del Giglio, Grosseto). Ciò non toglie che vi possano essere molti altri casi del genere, finora non conosciuti, ma che sono passibili di revisione critica.
L’ancora di Punta Nuraghe (Porto San Paolo, Sassari)    Nel Golfo di Congianus (nord est Sardegna) proprio ai piedi di Punta Nuraghe in uno specchio di mare tranquillo e protetto, pochi anni fa è stato recuperato un blocco trapezoidale di granito locale del peso di kg 74, munito di foro nella parte superiore e decorato su di una faccia con nove righe parallele di punti incisi. La superficie lavorata è piana; la faccia opposta sprovvista di segni e/o incisioni, piana anch’essa, è smussata in basso; la sezione è leggermente crescente dall’alto verso la base; l’oggetto, per la sua particolarità è stato oggetto di varie pubblicazioni (Tav. n. 3). Cosa notevole, la superficie decorata è fortemente abrasa intorno al foro, in alto a sinistra, al centro ed in basso a destra mentre il contorno della stessa non lo è. Gli autori associano con relazione difficilmente casuale la pietra al nuraghe costruito sulla penisoletta che chiude a sud il Golfo di Cugnana, a causa dell’estrema vicinanza fra costruzione e punto del ritrovamento; anche il tipo di decorazione rimanderebbe ad ambito nuragico (età del bronzo). Ma proprio per questa sua caratteristica sorgono seri dubbi sulla sua primitiva funzione: se si confronta con la tavola tipologica pubblicata da Scheuermeier (Tav. n. 1) si evidenzia immediatamente una grande analogia col tipo c, salvo che questi presenta dieci righe di incisioni a pettine, mentre nel caso di Punta Nuraghe le linee sono nove. Dieci incisioni sono anche nel tipo d, che però non presenta fori pervii. Chi scrive esprime forti riserve sull’interpretazione “decorativa” data alle nove linee di incisioni: se l’oggetto è nato come ancora, chi l’ha fatto sapeva che sarebbe stato soggetto ad urti, abrasioni e rotture oltre al rischio di perdita. Le pochissime ancore litiche della stessa tipologia a forma di triangolo isoscele o di trapezio allungato provviste di decorazioni (ma mai di questo tipo) sono state ritrovate presso santuari marittimi, e si può pensare che le stesse siano state fatte proprio per scopo votivo. Altrimenti, vi è tutta una casistica di segni incisi che denotano chiaramente la volontà di indicare il proprietario dell’ancora. Con grande probabilità le incisioni hanno invece un motivo logico ed utilitaristico; non a caso la consunzione e la levigatura si riscontrano proprio in corrispondenza della parte “decorata”, proprio come si consuma uno strumento nella zona di lavoro.   Nell’isola vi è ampia diffusione di questo attrezzo agricolo ad eccezione dell’estremo sud e nord. E proprio la Sardegna ha avuto un rapidissimo cambiamento culturale nel corso degli ultimi 50 anni. Il contesto sociale ed il modus vivendisono talvolta lontani anni luce da quelli visti da Le Lannou negli anni delle sue peregrinazioni sarde. Tuttavia ancora oggi  si può constatare l’esistenza di una strana commistione fra nuovo ed antico, fra arcaismo e novità: accanto a modelli comportamentali “capitalistici” convivono nelle campagne modi di vita, attrezzi e anche oggetti arcaici. Non pare quindi fuori luogo supporre (in alternativa a quanto già scritto al riguardo) il riutilizzo di una pedra es’arzola, ed a questo punto sarebbe stata utile una analisi al microscopio per esaminare le tracce di lavoro e di usura su tutte le superfici confrontandole con quelle riscontrabili su pietre da trebbiatura certe.   Pertanto l’oggetto di Punta Nuraghe alla luce di quanto sopra detto potrebbe essere in ipotesi identificato:come una pietra da trebbiatura di fattura recente (XIX-XX secolo) riutilizzata come ancora nel XX secolo; la datazione recente sarebbe desunta dall’estrema somiglianza col tipo Scheuermeier c. La lisciatura e consunzione della superficie incisa, al contrario delle altre, spinge in tal senso. come una pietra da trebbiatura di epoca remota (età del bronzo?) riutilizzata in epoca indeterminabile come ancora; tale ipotesi contrasterebbe vivacemente con quanto esposto in merito ai problemi cronologici: si ammetterebbero modalità esecutive della trebbiatura differenti da quelle indicate da fonti più tarde (romane) ma non è detto assolutamente che non se ne trovi documentazione in futuro col prosieguo della ricerca.. Per lo stato delle superfici valgono le considerazioni di cui al punto a).qualora le analisi delle tracce di usura non fossero esaurienti, come un’ancora litica primitiva (ipotesi di tutti quanti l’hanno finora pubblicata), difficilmente ben databile per mancanza di contesto subacqueo non essendo probante la mera vicinanza di un nuraghe. La datazione è stata formulata dagli autori per analogia con altri ritrovamenti (a parte quelli ciprioti di cui alla nota 44) in genere adespoti e con la cosiddetta decorazione a pettine, che però nella prima pubblicazione è indicata a  “punti incisi”.   Tuttavia proprio la “decorazione” trova puntuali confronti con la pietra di Sanluri per l’identica tipologia dei punti incisi in fila sul fondo dei solchi scalpellati.    Per tutto  quanto sopra detto e sciogliendo le riserve sopra espresse è molto probabile che l’oggetto sia da ritenere (in totale disaccordo con quanto sostenuto dagli autori che finora se ne sono occupati) una pietra da trebbiatura che, terminata la sua primitiva funzione, è stata riutilizzata come corpo morto in tempi recentissimi (XIX-XX secolo?) non come ancora da tonneggio ma da posta (corpo morto): non a caso è stata trovata in uno specchio di mare tranquillo e riparato, a bassa profondità (m 2,50) con acque cristalline e calme dove è veramente difficile supporre l’abbandono o la perdita di un’ancora decorata. La prima ipotesi formulata (pietra da trebbiatura recente) sembra l’unica attendibile non essendo scientificamente ammissibile che il ritrovamento presso un nuraghe sia di per sé probatorio dell’anzianità del manufatto dato che la Sardegna è piena di contesti enei e moderni conviventi nello stesso areale.
L’ancora di Punta del Fenaio (Isola del Giglio, Grosseto)   Ad ovest di Punta del Fenaio, nella parte nord dell’Isola del Giglio (Grosseto), alla fine degli anni ‘70 fu  recuperata su un fondale roccioso di circa m 30 una pietra forata di granodiorite a grana abbastanza grossa, di forma quadrangolare, con una leggera gola fra il lato superiore ed il foro, del peso di circa kg 70 (Tav. n. 4 a, b, c). Su di una faccia piana si notano distintamente una serie di incisioni parallele fatte in diagonale e coprenti in origine tutta la superficie. Al centro del lato sinistro e sul lato destro in basso della stessa  faccia la pietra sembra aver avuto dei distacchi (forse per urti) che la hanno smussata. La faccia opposta è convessa in modo accentuato e non presenta lavorazioni a incisione. La superficie della gola nella parte superiore della pietra mostra segni di usura d’uso. Non vi sono dubbi dell’utilizzo come ancora della pietra, mentre se si confronta la stessa con la tabella dello Scheuermeier si trova una impressionante analogia col tipo b. In effetti anziani testimoni oculari ancora viventi negli anni ottanta nell’Isola del Giglio hanno confermato l’utilizzo di simili pietre per le operazioni di trebbiatura. L’economia isolana molto ristretta non permetteva spazi grandi da dedicare a graminacee ma nella Valle della Botte esistono le rovine di un mulino ad acqua di costruzione rinascimentale, che ha funzionato fino agli inizi del XIX secolo utilizzando l’acqua raccolta in un bacino artificiale e convogliata su un ritrecine con una condotta in spezzoni di tubi di granito locale.      Nel mare dell’Isola del Giglio è stata rinvenuta negli anni settanta - ottanta una notevole quantità di ancore e marre litiche, in parte già pubblicate dallo scrivente; la tipologia delle stesse copre quasi tutto l’arco della tabella della Frost, ed alcune sono databili con una certa sicurezza in associazione a contesti archeologici mentre per molte altre sono come sempre stati applicati criteri  cronologici comparativi che indicano attestazioni fra epoca pre e protostorica e arcaismo. Nessuna di tali ancore è anche lontanamente comparabile nella forma a questa in esame. Pertanto si è indotti a supporre per il manufatto finora inedito una datazione fra il secolo XIX e gli inizi del secolo XX ed un primitivo utilizzo come pietra da trebbiatura; un utilizzo secondario come ancora al termine della sua originale funzione, presumibilmente nel corso del XX secolo dato che fino ai suoi inizi l’oggetto manteneva un motivo d’essere nel corredo del proprietario contadino.
Conclusioni   Queste brevi note sono frutto di riflessioni su problemi che emergono specialmente nel settore dell’archeologia postmedievale; molto spesso il campo d’indagine spazia a 360 gradi coinvolgendo discipline diverse, per cui è veramente difficile districarsi. Ognuno di noi ha una formazione specifica per cui è indotto a vedere negli oggetti gli archetipi che gli sono familiari, e spesso siamo indotti a dare spiegazioni di comodo a dei reperti solo perché non conosciamo o abbiamo dimenticato la funzione di alcuni strumenti del passato; di quanti “oggetti di culto” sono piene le vetrine dei musei?   Per l’archeologia postmedievale la commistione con l’etnografia è spesso rilevante perché si indagano materiali abbastanza vicini al mondo moderno, solo un passo prima della industrializzazione e della meccanizzazione. Perciò è utile e necessario avere una solida cultura di base in merito alla cultura materiale del mondo pre-protoindustriale, al mondo contadino ed urbano. Nell’indagine archeologica occorre affrontare lo studio di tutte le classi di materiali e in special modo di quelle non ancora studiate e guardate con sufficienza dagli archeologi “tradizionali” perché troppo recenti o umili, e indegne di attenzione. Chi studia ad esempio le scatole di latta per conservazione degli alimenti sott’olio? O i tappi delle bottiglie? Non ridiamoci sopra, le vetrine dei musei archeologici di Montreal e di Ottawa (Canada), tanto per fare un esempio, contengono per l’appunto queste cose provenienti da insediamenti sette-ottocenteschi di cui questi manufatti arrugginiti sono i muti testimoni.
Fonte: In Archeologia Postmedievale, 4, a.2000, pp.265-282