sono stanchissima, sono distrutta e mentre aspetto che la cena si scaldi in forno guardo l'ultimo post di Giardigno e uno dei link è un video che si chiama "Mankind is no Island". E' un video filmato con il cellulare che mostra i bums di NY e Sydney e delle scritte che formano il pensiero dell'autore. Una frase: - I walk by you and look away - mi ricorda quanto è difficile tenersi aperti al dolore del mondo.
Io so che la gente guarda altrove perchè sa di essere debole, sa di non farcela ad arginare il dolore che ci affogherà se gli si permette di formare un onda.
Io mi sono trovata in quella posizione e voglio raccontare ancora la storia che mi è capitata. La trovo bellissima e incredibile.
Era il periodo dopo il training di Shanti, del volontariato con i malati di AIDS che ho fatto nei tardi anni 80 a San Francisco. Il training mi aveva aperto come se avessi avuto una zip dalla bocca alla schiena e ora tutta la mia imbottitura era sparsa in giro lasciandomi esposta e vulnerabile. Camminare per il downtown di SF era difficile, ogni poveraccio, ogni drogato, pazzo, disperato, vagabondo, mentecatto era un richiamo per la mia compassione. Mi chinavo, li toccavo nel dargli una moneta e li guardavo negli occhi, entrando così dentro di loro: sprofondavo nel loro dolore come se cadessi nella tromba dell'ascensore, dentro, sempre più giù nel buio e nell'angoscia della loro disperazione più profonda. Mi dovevo aggrappare al bordo dei loro occhi per riaffiorare dall'abisso nero e freddo alla luce e all'aria, riemergendo in apnea, ansimante di paura e incerta se la prossima volta sarei riuscita a salvarmi.Questo era veramente estenuante, mi deprivava delle difese necessarie alla mia sopravvivenza. Sono una tigre di carta. Sono fragile, ho bisogno di un carapace che mi protegga dalla vita.
Un Sabato, andavo a lavoro downtown. Le strade incassate fra grattacieli erano deserte, la luce cristallina si rifrangeva in mille riflessi per venire assorbita dalle ombre profonde del cemento. Barcollante a 10 passi da me una barbona anziana con un piumino color lilla lungo fino ai piedi. Attraverso la strada, entro in un caffè e ordino due muffin e due caffè da portare via, in due pacchetti separati. Lo faccio d'istinto, non c'è premeditazione perchè se ci avessi pensato su due volte avrei trovato delle scuse per non farlo. Esco, la passo sulle strisce e arrivata dall'altra parte mi giro, e guardandola negli occhi sollevo il pacchetto e dico: per te. Lei sgrana i fari celesti e un pò acquosi e di rimando, senza perdere un colpo mi fa: Come lo sapevi che era il mio compleanno?
Prima di barcollare sotto quel colpo ho la prontezza d'animo di dire "buon compleanno" poi mi giro e fuggo. Non corro ma dentro di me voglio sparire come l'angelo che lei pensa io sia, che è apparso nella sua vita dal nulla e ora nel nulla scompare dopo averle toccato il cuore. Arrivo al lavoro e sono sconvolta. Non riesco a capacitarmi sul perchè del mio ruolo in questa farsa. E' una farsa? E' un miracolo? Mi irrita essere stato strumento di un volere superiore e non riesco a crederci. Non ce la faccio a pensare alla sua solitudine ora che so che per un istante ha avuto me. E' uno scherzo? E' una punizione? Per me o per lei? Penso che quello sia stato l'inizio della fine. Ho dovuto richiudermi dentro la sottile pelle che inspessita giorno per giorno è diventata prima buccia, poi scorza, corteccia e infine armatura. Ho dovuto farlo per non diventare come uno di loro. Lo capite?
I poveracci sono santi che dedicano la loro esistenza a tenerci umili e onesti verso noi stessi, Bodhisattvas che ci ricordano di come siamo lontani dalla meta, di come siamo fragili e frangibili, di come corra poco fra la nostra esistenza e la loro e di come tutto il resto al di fuori di questa linea sottile di demarcazione non abbia significato perchè l'abisso è sempre a pochi passi e ci chiama, ci chiama...