NON VENDO LA MIA ANIMA A GENTILE.
Il 31 luglio del 1915 in una trincea italiana di fronte all’armata austriaca, durante una tregua dei combattimenti, un giovane ufficiale dall’imponente corporatura e con un fluente barbone nero, posa il fucile e mostra alla truppa un libro da lui stesso stampato in una collana intitolata < I classici del ridere >. Quel giovane è già uno dei più famosi editori italiani. Si chiama Angelo Fortunato Formiggini, è nato a Modena, è ebreo, sposato con una cattolica. Nel 1913 ha subito un processo per oscenità per aver pubblicato uno dei più trasgressivi poemi del Porta < La Ninetta del Verge >. Arringa così i soldati: < La mia collana sarà l’edificio dell’umanità futura: più buona, più giusta, più allegra certo della truce umanità di oggi. Quando i disagi del campo ve lo consentono, leggete i miei classici del ridere. Vi assicuro che vincerà il popolo più gaio >. Ventidue anni dopo, nel 1935 Formiggini può vantare un grande prestigio editoriale ma la sua azienda è economicamente a terra. L’editore paga il prezzo di non aver voluto asservire la sua casa editrice alla politica culturale del fascismo, tutta finalizzata alla propaganda mussoliniana. Spirito pacifista e conciliante, Formiggini ha dato voce nei suoi libri a tutte le correnti culturali del tempo, facendo un’eccezione per le filosofie dei due massimi esponenti dell’idealismo italiano: Croce e Gentile. Anche se non li mette sullo stesso piano e li distingue con una battuta: < Croce è molto più Gentile di Gentile e molto meno Croce di lui >. A Croce rimprovera di essersi dichiarato all’unisono con Mussolini offeso nel pudore, quando le edizioni Formiggini hanno pubblicato in versione integrale il < Satiricon > di Petronio. Con Gentile i motivi di contrasto sono molto più profondi. Prima del fascismo tra l’editore e il filosofo c’è stata un’intensa collaborazione. Nel 1918 Formiggini ha creato un periodico letterario, < L’Italia che scrive >, che ha avuto enorme successo, trentamila copie vendute. Con i ricavi l’editore dà vita a un istituto per la propaganda della cultura italiana che mira a costituire un consorzio di case editrici per promuovere traduzioni di autori italiani all’estero. Tra il 1922 e il 1925, Gentile, entrato nell’istituto come collaboratore, se ne appropria, e, facendo valere i suoi poteri di ministro della Pubblica Istruzione, lo trasforma in ente morale e alla fine estromette Formiggini. L’operazione è spiegata da Gentile agli altri consiglieri di amministrazione dell’istituto col fatto che Formiggini non è politicamente affidabile. < Se Formiggini fosse dei nostri, tutto dei nostri, allora sì… >. Formiggini non ha altra scelta che abbandonare la sua creatura ormai privata di autonomia, ed esprimere la sua amarezza in una pubblicazione satirica intitolata < La ficozza della filosofia fascista > : < Non mi sono prestato a svolgere la mia attività editoriale vendendo la mia anima… >. Afferma di < non saper odiare > e ironizza su Gentile: < Mi basterebbe che, con la scusa dell’atto puro, non facesse atti impuri >. E poi: < Il mio sfogo è stato ispirato dalla marcia attualista-fascista sul mio istituto di cultura >.
IL RAZZISMO, UNA VERGOGNA PER TUTTI GLI ITALIANI.
Negli anni in cui il fascismo vieta la pubblicazione di libri sgraditi al regime o alla chiesa cattolica, Formiggini si adatta a convivere con un sistema oppressivo ma manifesta nel suo stile personale, che è quello della provocazione intellettuale, un crescente antifascismo. Uno dei suoi biografi, Ernesto Milano, ricorda che < il suo signorile e insopprimibile spirito di libertà > ( Ernesto Milano: < Angelo Fortunato Formiggini >, ed. Luisè Rimini ) lo spinge a gesti coraggiosi come la pubblicazione delle allusive < Favole di Esopo >, dirette nel 1929 da Concetto Marchesi, un grande latinista antifascista, col quale rischia di andare al confino >. La lunga stagione del malessere intellettuale si acuisce verso la metà degli anni ‘30 quando la sua casa editrice si avvia al declino nel clima di un conformismo culturale che arresta gli entusiasmi e spegne i sogni. Ai problemi economici si aggiunge nel 1937 una nuova afflizione: la bella casa di Formiggini ai Fori è minacciata dagli sventramenti dell’urbanistica fascista. Assediato dagli ingegneri del genio civile, che pretendono di radere al suolo la casa e gli inviano innumerevoli solleciti a traslocare, l’editore oppone resistenza come può. All’ingegnere che gli notifica l’ennesimo ordine di sgombero, mostra sul terrazzo un limone fiorito in un vaso e dice: < Questo limone, maestoso ma pigro, avendo sentito che deve morire, s’è tutto coperto di fiori magnifici, per l’ultima volta, con prodigiosa abbondanza >. E’ un invito a tornare quando sarà finita la fioritura. Riesce alla fine a salvare la casa, ma ormai arriva l’uragano del razzismo. Il 27 giugno 1938 la commissione per lo studio della razza conclude i suoi lavori con una netta distinzione tra razza ariana e razza ebrea e lancia la campagna antisemitica. Appena sente alla radio la notizia Formiggini scrive un’epigrafe su se stesso: < Formiggini da Modena, editore in Roma, sopportò, sorridendo, XVI anni di dominazione fascista, che lo aveva raso al suolo, ma quando ignobili penne, per atavico odio plebeo/ o per turpe mercede, o per contagio tedesco/ iniziarono una campagna razzista, sdegnato si condannò per alto tradimento, sostituendosi al vero colpevole/ per stornare dalla sua patria/ amorosamente diletta/ il danno e la vergogna >. La lettura è chiara: medita di uccidersi per far stornare dalla patria e ricadere su Mussolini, il vero colpevole, la vergogna delle leggi razziali. Per < cordialissimo attaccamento alla vita > lascia passare un po’ di tempo prima di tradurre in atto il suo progetto. Proclama la sua estraneità alla questione razziale. Lui che è sempre stato laico, che ha sposato una donna cattolica, nega < una solidarietà di razza che non sia solidarietà puramente umana >. L’assurdità della sua condizione gli è così dolorosa, che prende la decisione di scrivere una lettera agli ebrei d’Italia in cui si definisce < uno che vi è ormai estraneo ed ha sempre vissuto in un mondo < ariano >. Arriva anche a scrivere a Pavolini, ministro della cultura popolare. Gli dice: < Il problema razzista è stato sempre remoto dalle mie categorie mentali, come tutta la vita chiaramente dimostra >. Appare come una specie di abiura, ma il vero sentimento che predomina in Formiggini è quello di una profonda italianità e di una identità storica e culturale che si sente offeso dalla < scienza avventurosa e analfabeta > che ha lanciato la campagna razzista. Il razzismo deve essere la < Caporetto del fascismo >. Formiggini vuole la rivincita, vuole che tutta l’Italia veda la vergogna a cui l’ha condotta Mussolini. < Da tutti mi feci fregare/ e lui mi fregò più di tutti/ ma ora gli faccio pagare per nuove le vecchie carcasse: / anch’io finalmente ho fregato qualcuno >. Con l’epigramma offre la sua vecchia carcassa per provocare un’ondata di sdegno contro il dittatore. Formiggini avverte la solitudine degli ebrei. I ragazzi ebrei sono espulsi dalle scuole e dalle università, gli insegnanti sono licenziati, gli ufficiali cacciati dall’esercito, gli imprenditori costretti a cedere le loro aziende. Nessuno offre solidarietà, gli italiani non protestano, non si vergognano. Sarà il suo gesto a far nascere la reazione. Ancora affida alla penna i suoi propositi. < Mi sto preparando all’imbarco per un viaggio molto lungo in regioni molto remote. Il mio me stesso farà punf >. E poi ancora: < C’era una volta un editore modenese di sette cotte, e perciò italiano sette volte, che risiedeva a Roma. Quando gli dissero: ‘Tu non sei italiano’ egli volle dimostrare di essere modenese di sette cotte e quindi sette volte italiano, buttandosi dall’alto della sua Ghirlandina >.
GHIRLANDINA! GHIRLANDINA!
Il 28 novembre 1938, una giornata fredda e nebbiosa, Formiggini torna nella sua città. Entra in un bar dove è riconosciuto e festeggiato da vecchi amici. Beve con loro qualche bicchiere di Lambrusco e racconta che è tornato a Modena per inaugurare dall’alto della Ghirlandina un nuovo saluto al duce: < Consiste nell’agitare con forza l’avambraccio destro col pugno chiuso, mentre la mano sinistra tiene salda la parte superiore del braccio >. Più tardi in albergo Formaggini scrive una lettera alla moglie in cui spiega ancora il senso della sua decisione: < Ho il dovere di dimostrare l’infame assurdità delle leggi razziali. Pago questa grave tassa con assoluta serenità >. Tra i suoi scritti viene trovata anche un’epigrafe sulla torre della Ghirlandina: < Ghirlandina! Ghirlandina! damme un cocc/ pr’ajutarmea fer al bocc/ I diran: cus’è so fagot/ To! L’è el pover Furmajot/ Un mudnes ed qui ad via/ che ormai a’n va piò via >. Ai piedi della Ghirlandina Formiggini incontra un amico al quale dice con un sorriso: < Salgo lassù per le scale, scenderò dall’esterno: sarà meno pesante >. L’amico ride pensando che sia una battuta. In cima alla torre Formiggini rivede il vecchio guardiano, che lo riconosce, lo abbraccia, gli ricorda quando, studente, saliva lassù a declamare versi con i quali prendeva in giro i professori. Formiggini dice in tono scherzoso: < Sono venuto quassù per gettare la mia vecchia carcassa: me ne farò una nuova e voglio farla pagare al duce >. Poi per far allontanare il guardiano gli dice che ha dimenticato di lasciar detto a due amici che lo aspettano davanti al bar di sotto che non potrà andare a pranzo con loro e lo prega di scendere giù a portare il messaggio. S’affaccia alla torre e gli indica due persone davanti al bar: sono i poliziotti che gli stanno dietro da quando è arrivato a Modena. Il guardiano scende. Formiggini grida < Italia, Italia > e si lancia nel vuoto. La notizia del suicidio di Formiggini è trasmessa subito al ministero dell’Interno e al partito fascista. Starace commenta: < E’ morto da vero ebreo, senza voler nemmeno comprare il veleno per uccidersi >. E’ notte quando arriva a Modena Emilia Santamaria Formiggini. E’ accolta dal questore, il quale gli dice che i funerali per disposizione del prefetto devono essere fatti nella stessa notte si vuole che gli italiani non si accorgano del suicidio di Formiggini. La donna protesta in modo veemente: < I funerali di notte si fanno ai delinguenti: mio marito non è stato un delinguente, ma ha onorato l’Italia >. -Annibale Paloscia, PAGINE SEGRETE. 1938, vita e morte di un ebreo sotto il fascismo, Avvenimenti, 1994-
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ARRIVEREMO
Arriveremo un giorno
vecchi ma felici
per la libertà
della nostra morte.
-Renzo Mazzetti-
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R E S I S T E N Z A
Quando è nata la Resistenza italiana? La risposta è facile e sicura: essa è nata col fascismo stesso. Fin dal primo giorno, fin dalle prime manifestazioni di violenza delle camicie nere,violenza organizzata e armata contro il popolo, il popolo si è levato alla difesa, alla resistenza e alla lotta. Fin dal primo giorno la resistenza popolare fu la difesa non di semplici interessi di parte, ma della libertà del progresso e della dignità umana, e, per ciò stesso, dei più vitali ed essenziali interessi nazionali. Questa lotta del popolo durò per tutto il venticinquennio fascista; conobbe drammatici alti e bassi, fasi di ardente speranza e di tetro sconforto; improvvisi balzi in avanti e lunghi periodi di ripiegamento. Questa lotta si spiegò in grandiosi movimenti di massa, come agl’inizi del fascismo e durante il periodo Matteotti, e si restrinse spesso all’azione sotterranea di piccoli gruppi di audaci e di eroi; conobbe i più grandi martiri e le abiure più abiette. Essa si combatté con le armi in pugno, come nel 1921-22 in Italia e come nel ‘36-’38 in terra di Spagna, e con la propaganda, i manifestini e i giornali clandestini, fatti circolare fra gl’iniziati; e fu intessuta dei sacrifici, delle sofferenze e del sangue dei nostri figli migliori. Lotta di uomini e di donne, di intelligenze e di cuori, essa fu fatta di grandi audacie e di sottili astuzie, e seppe non disdegnare le sferzate dell’epigramma e nemmeno la pungente ironia della barzelletta. Di questa lotta, la partigianeria fu il coronamento felice e vittorioso, perché in essa si realizzarono e si riassunsero tutti gli aspetti e tutti i motivi politici sociali nazionali e umani apparsi durante la Resistenza antifascista del venticinquennio. Perché l’Italia fosse di nuovo libera e una dalla Sicilia alle Alpi, presero le armi 462 mila partigiani e patriotti. Di essi 76.500 caddero sul campo di battaglia o nel martirio. Essi chiedono ai compagni di lotta sopravvissuti, agli italiani cui il loro sacrificio ha ridato la libertà e dignità di cittadini, di non frustrare il loro sacrificio, di restare fedeli agli ideali per cui assieme si combatté e si soffrì, di continuare per la strada aperta dal loro eroismo e dal loro sacrificio e al cui termine essi videro, morendo, un’Italia unita e rinnovata nella libertà e nel lavoro, non matrigna ma madre amorosa e premurosa di tutti i suoi figli. Sappiamo ricordare sempre questa consegna; sappiamo realizzare questo testamento dei nostri morti: eleveremo, così il miglior monumento alla loro gloria ed alla loro memoria.
LUIGI LONGO
Patriota comunista, eroico antifascista, decorato dal generale americano Mark ClarK, a nome del Presidente degli Stati Uniti, con la seguente motivazione:
Egli lanciò il grande peso del potente partito del quale era un dirigente nella battaglia per la liberazione del suo paese. Con tutte le sue forze si prodigò per l’unificazione dei gruppi antifascisti e antitedeschi, consentendo la formazione di un unico fronte di lotta contro il comune nemico.
Firmato: HENRY TRUMAN
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A CHI PASSA
Su questi monti in queste valli
per le strade nei villaggi
della bella pianura che vedi laggiù
caddero per la libertà d’Italia
i Partigiani della 17a Brigata Garibaldi.
Soldati senza uniforme e dalle scarpe rotte
con poche armi strappate al nemico
furono più forti del barbaro invasore
del freddo e della fame
del richiamo della famiglia lontana.
Affrontarono la morte combattendo
fucilati impiccati o uncinati
solo perché sorretti dalla certezza
d’un domani migliore
di libertà e di giustizia.
Piangerli non basta:
per ricordarli degnamente
occorre continuare l’opera da Essi cominciata.
-Epigrafe posta sul colle del Lys a ricordo della 17a Brigata Garibaldi “ F. Cima “-
IGNOMINIA
Lo straniero non sapeva tutto
di quei monti e di quelle colline
non sapeva tutto di quelle pianure.
Lo straniero si smarriva
nei labirinti dei centri antichi
non trovava gli sperduti paesini.
Lo straniero non conosceva quel sentiero
né il sicuro nascondiglio
dove bambini giocarono e ragazzi si uccisero.
Il fascio littorio
Salò e le camicie nere
furono barbarie e distruzione.
Antigone salvò quei neri cadaveri
dalla furia dei perseguitati assassinati
nell’aldilà dove non si perdona.
L’eterna oscurità detenga le spie
e i servitori dei tiranni dannati
nell’infernale pozzo dei traditori.
Nessun civile perdono sia concesso
al morto non uguale al morto
solo rigoroso ricordo.
Ancora sanguinano innocenti ferite
e cumuli di coscienze tremanti
testimonianze perenni
per non ricadere nell’ignominia.
-Renzo Mazzetti-
CHE FINE HA FATTO IL DISEGNO DI LEGGE 1360 SULL’EQUIPARAZIONE?
VA RITIRATO!
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QUAEDAM IURA SCRIPTA, SEDOMNIBUS SCRIPTIS CERTIORA SUNT
-SENECA-
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