Anish Kapoor: il processo dell’identità

Da Orienta_menti

"Untitled" 2007

(Articolo di Priscilla Inzerilli)

L’opera di Anish Kapoor è in grado di attivare i mandala interiori, da tempo rimasti “inceppati” a causa di un certo tipo di fruizione dell’arte, come pure di una riflessione su di essa che troppo spesso si risolve in un’aporia, in “omaggio” e in funzione della presenza – quasi prepotente – della personalità dell’artista, così come di un voluto “non senso” (con il quale non si rischia né la critica né la lode) che respinge ogni tentativo di riflessione.

Affermare, come ha fatto lui stesso, che le sue opere non siano affatto autobiografiche, è dire una mezza verità. Indiano di nascita e britannico di “adozione”, di padre hindu e madre ebrea irachena, Anish Kapoor appare quasi come il “modello” delle proprie opere, una linea di confine tra un insieme di riferimenti culturali e di significati diversi, presenti allo stesso momento, su cui ognuno può riflettere e proporre la propria interpretazione (significativo ed emblematico, in questo senso, il fatto che alle orecchie occidentali il nome di Kapoor suonasse come femminile, dando così l’avvio a quel meccanismo di “equivoci” interpretativi che si estenderà poi alle sue opere, e su cui l’artista amerà giocare e riflettere).

D’altra parte lo ha confessato lui stesso, in occasione dell’esposizione alla Royal Academy di Londra (2009): La mia scultura? Tutta colpa di Freud.

“ Nulla è privo di significato psicologico, indagare è compito dell’arte”.[1]

Solo che non si tratta di una “psicanalisi” individuale, ma collettiva.

Legge Jung e si appassiona alle macchine celibi di Marcel Duchamp; conosce colui che diverrà il suo maestro Paul Neàgu e produce una serie di installazioni volte a indagare i temi portanti nel suo percorso artistico: l’androgino, ovvero la dicotomia femminile-maschile, la sessualità, il rito […] [2]

È proprio dal modello junghiano della psicologia degli “archetipi” che emerge la riflessione più interessante sull’opera di Kapoor.

L’artista non crea oggetti. L’artista crea mitologie”. [3]

Che cos’è una mitologia? Una mitologia è un significato, o una serie di significati, profondamente radicati in noi, nel nostro inconscio. “Io non ho nulla da dire”, afferma spesso Kapoor. Il che non va tradotto con “il mio lavoro, le mie opere, non hanno nulla da dire”; ma significa precisamente che è lui a non avere nulla da dire, perché gli archetipi parlano da sé, e l’inconscio non può che rispondere, risuonando con essi. Significa precisamente che non vi è un messaggio prestabilito, una funzione didascalica dell’opera, ma che l’opera stessa è un processo di costruzione di senso.

Sono mitologie arcaiche, quelle proposte, che vanno via via raffinandosi nel tempo fino a raggiungere tematiche dal sapore quasi puramente metafisico; a partire dall’uso del pigmento puro (la serie 1000 Names), passando per l’indagine delle possibilità della pietra grezza e della materia “plastica” (Adam, Void field, Ghost, Svayambh), fino ad arrivare a quegli specchi, che non ci restituiscono affatto la realtà come ci aspetteremmo (Turning the World Inside Out, S-Curve, Alba, Double mirror).

"Vertigo", 2008

Alcune “mitologie” sono facilmente riconoscibili (seppure difficilmente “interpretabili” di primo acchito): agli occhi di uno spettatore occidentale, provvisto di una minima conoscenza della propria cultura religiosa cristiana, un’opera come The healing of St. Thomas non ha quasi bisogno di spiegazioni. La presenza della fessura che dovrebbe squarciare il velo del dubbio, permettendo la fede, la certezza della “visione”, ci riporta in realtà ad un’ulteriore dimensione di mistero e smarrimento.

"Adam", 1989

Sempre nell’ambito della cultura occidentale, Origin du monde appare come un’ironica citazione del pittore Gustave Courbet; mentre l’intervento nella cappella del Castello di Ama (Aima, cioè “sangue”) sembra voler sottolineare la presenza dell’elemento religioso e allo stesso tempo stabilire la priorità della propria presenza.

Adam, come prototipo dell’umano, ci conduce ad una riflessione sulla coesistenza di una natura “grezza” d’origine e una “struttura” geometrica, ordinata.

Il gioco di “riconoscimento” e di smarrimento di fronte a concetti “noti”, ma allo stesso tempo stranianti, continua con i lavori basati sul colore e con le installazioni in cui la materia che le costituisce si va disfacendo progressivamente. Qui l’osservatore occidentale probabilmente ignorerà il significato particolare che il colore  rosso potrebbe avere per un indiano, ciò non toglie che esso sia in grado di risuonare nell’inconscio di entrambi. Kapoor afferma infatti che il rosso è quel colore che più di tutti richiama l’India, ma allo stesso tempo, più universalmente, è il colore della corporeità, della vitalità, un colore estremamente potente.

A proposito di Svayambh, invece, “Quando lo espose per la prima volta al Musée de Beaux Arts di Nantes il pubblico vi lesse la metafora di uno stupro.”[4] Qui il gioco sta nel “nascondere” il significato dell’opera (a cui solo uno spettatore dotato di cognizione dell’ambito religioso hindu può accedere) attraverso l’ermeticità del titolo; Svayambh è infatti il “Principio autogenerato”, l’Autoesistente, l’Essere assoluto (e qui il gioco intellettuale diventa duplice, lo Svayambh di Kapoor infatti, nel “darsi forma da sé” non fa altro che perdere parti di se stesso, “autodistruggendosi”).

Una cosa esiste nel mondo perché possiede una coerenza mitologica, psicologica e filosofica”, ed “è questo il momento in cui una cosa è veramente realizzata (That is when a thing is truly made)…[5]

"Svayambh", 2007

L’arte del “truly made” si ha solo nel momento in cui “il materiale e il non-materiale si toccano tangenzialmente[6].

È quando la materia crea il vuoto, la concavità crea la convessità, il dentro crea il fuori, il dritto crea il rovescio, il sopra crea il sotto (Void field, Untitled 2005, Upside Down Inside Out, Wave, Sky Mirror).

È qui che, secondo Anish Kapoor, si ha il “segno del vuoto” (the sign of emptiness). Non un vuoto come “assenza”, ma un vuoto come “possibilità di altro”, uno spazio in cui l’oggetto e l’osservatore, nel loro incontro, possano “espandere i limiti dello spazio disponibile[7]. Aggiungerei, anche, i limiti del senso disponibile.

"The tall tree and the eye", 2009, Royal Academy of London

Occorre forse a questo punto operare una distinzione tra “significato” e “senso”. Il significato è in un certo modo determinato dalla struttura stessa  dell’oggetto (signo – facere, produrre un segno) cioè dagli elementi che lo compongono, che rendono tale la sua struttura (come le lettere che compongono una parola). Il senso ha invece a che fare con il “sentire” (“percepire col corpo e con l’intelletto”)[8]; non solo, ha anche a che fare con la “direzione” di questo “sentire”. Il senso si ha quando trasformiamo questa struttura di segni in un qualcosa che per noi ha senso, cioè quando mettiamo in gioco, nell’osservazione dell’oggetto, il nostro contenuto mitologico, psicologico e filosofico. Si tratta di un “doppio- senso”, dall’oggetto all’osservatore e dall’osservatore di nuovo all’oggetto. Il senso si trova nell’incontro, nella relazione.

È nell’incontro che l’oggetto e la sua “mitologia latente” si “attivano”, attivando anche nello spettatore le “immagini” presenti nel proprio inconscio. Da questo punto d’incontro, si origina il senso, secondo un processo di proiezione – identificazione continua.

Ma è una relazione in cui alla fine si annullano le singolarità specifiche di oggetto e osservatore, è in quel punto d’incontro “neutro”, il segno del vuoto, nel processo “reverse, affirm, negate”.[9]

Ovvero ribaltamento, cambio di prospettiva, incontro con l’ “altro”, con ciò che non sono io;  affermazione delle rispettive singolarità al momento dell’incontro; infine “negazione”, ma come annullamento delle differenze, identificazione completa con l’altro da me: ecco il senso di Double mirror, i due specchi concavi che, posti l’uno di fronte l’altro, finiscono per non riflettere più nulla.

Ma ecco anche il processo di costruzione dell’identità, poiché il processo “reverse, affirm, negate” è un processo circolare, che ritorna, dopo la “negazione”, attraverso un nuovo “ribaltamento”, ad un nuovo “affirm”; l’affermazione, la creazione di nuovi sensi. Almeno tanti quanti gli “incontri” possibili tra exteriority and inward, tra ciò che esiste fuori di noi e la nostra interiorità.

"Cloudgate", 2004, Millenium Park, Chicago

[Galleria delle opere, saggi critici, interviste all'artista su http://www.anishkapoor.com/ ]


[1] Anish Kapoor in Anish Kapoor inghiottito da uno specchio, articolo di Francesca Paci, dal sito LaStampa.it, 30/09/2009

[2] Dal sito http://www.luxflux.net

[3] Anish Kapoor in John Tusa, dal sito www.anishkapoor.com/writing

[4] Anish Kapoor inghiottito da uno specchio

[5] Aperture e Visioni di Pier Luigi Tazzi

[6] Anish Kapoor: Making Emptiness by Homi K. Bhabha, dal sito www.anishkapoor.com/writing

7Ibidem

[8] Dizionario etimologico

[9] Anish Kapoor: Making Emptiness


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