Anita Garibaldi: 10 anni di guerra e d’amore (parte 1)

Creato il 11 luglio 2014 da Cultura Salentina

11 luglio 2014 di Augusto Benemeglio

Anita Garibaldi (®Wikipedia)

Avevo bisogno di una donna che mi amasse subito!…

C’era stato il polverone, il grido e la caduta, la liberazione, la conquista, poi Anita dalla pelle cupa, una creola dotata di vera dignità spagnola, che aveva antenati indiani e portoghesi. Poi c’era stato il vento teso che si fa tempesta, il naufragio, la morte dei fratelli italiani, la luce fresca che segue sempre una tempesta, infine lo strazio dei ricordi, la solitudine, la disperazione… infine Anita, con il suo volto velato che si posava sull’oceano e andava alla deriva nel pizzo del suo strascico nuziale. Anita: una donna forte, coraggiosa, un’amazzone, ma anche una vera compagna, che gli avrebbe dato quattro figli e l’avrebbe amato come nessun’altra, per tutto il corso della sua breve vita, come lui aveva desiderato.

“Avevo bisogno d’una donna che mi amasse subito!… sì, una donna!, e trovai Anita, la più perfetta delle creature…Da quel giorno non ho desiderato più niente. Il mio viso, come il viso del sole, era sfiorato dal suo sguardo, che era come una pioggia leggera, calma, sul mare”.

Le pietre sono il tempo, e Anita ora è pietra, alabastro risorgimentale. Le sue spoglie sono là, racchiuse nel marmo del suo mausoleo, a Roma, sul colle del Gianicolo, nel suo monumento a cavallo, con il figlio in braccio e la pistola in pugno, icona della pura amazzone, con i capelli lunghi e nerissimi raccolti nella crocchia, e il vento del sud sopra di lei, due secoli di vento, che si avvolge su se stesso e si sotterra nel giorno della pietra, come il villaggio sperduto in cui era nata, Morrinhas, nel Brasile meridionale, il 30 agosto del 1821, un villaggio di farrapos, straccioni, della provincia di Santa Caterina .Garibaldi l’aveva sognata nelle foreste del Rio Grande, tra raffiche turchesi di pappagalli in fuga, alberi ribollenti di corvi, e le raccoglitrice di manghi . La vide bella e quieta, colla blusa rossa e un fiume di capelli neri, tra gli alti girasoli . Era una pausa della luce, un sorso di acqua di fonte, e i suoi seni ampi e sodi maturavano sotto i suoi occhi. Il corsaro la vide forte e ambrata, agile come una gazzella scura, leggera come una brezza marina, fiammeggiante nella veemenza di un tramonto tropicale. “Tutte le donne riograndesi sono belle di forme, e generose nel donarsi, ma Anita era il mio ideale, il mio sogno pensiero che si fa donna, il mondo vero, la mia vita, e la mia morte”.

Non gli disse che era sposata

Poi la rivide, nella realtà, questa figura sognata, vagheggiata e fu a Laguna, il piccolo porto di Santa Caterina, diventato repubblica indipendente con il nome di “Giuliana” ( perché si era in luglio), imbandierato delle nuove insegne verde bianco e giallo oro ; la rivide sul molo, con il cannocchiale, dalla sua nave in rada, ed era lei, in tutto, nell’alta statura, nella fierezza, nel seno prepotente, nel passo sicuro. Scese a terra, e la incontrò nella casa dove viveva . Era il 27 luglio 1839 e le cose intorno a loro ardevano. Andarono entrambi in estasi. “Restammo entrambi a guardarci reciprocamente come due persone che non si vedono la prima volta, e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra qualche cosa che agevoli una reminescenza, che appartenga al sogno”.

Tu devi essere mia, le dice in italiano. E poi, in portoghese, le chiede qual è il suo nome. Aninhas, dice la ragazza. Nel mio paese si dice Anita. Per me sarai per sempre Anita. Io vivo sull’acqua, solo. Senza moglie e senza figli. Ho circumnavigato ogni mare, ogni possibilità umana, per arrivare a te, Anita, e finalmente ti ho trovata. Staremo sempre insieme. E Ana Maria Ribeiro Da Silva, detta Aninhas, mezza portoghese e mezza indiana, rispose: sì, sarò tua, e ci faremo una piccola casa sull’ acqua grigia del porto, con le finestre sempre spalancate al sole, e anche alla pioggia e al vento. E se vuoi metteremo anche la bella bandiera della repubblica verde bianco e giallo oro, che mi ha donato mio zio Antonio, quando è entrato a Laguna, anche lui rivoluzionario, come te, Josè (Anita sapeva benissimo chi era lui, l’aveva visto in chiesa, tra i comandanti, e gli era parso meraviglioso, con la barba bionda e gli occhi azzurri). Ma non gli disse che era da quattro anni sposata con un calzolaio, Manoel Duarte Aguiar, Manoel dei cani, come lo chiamavano a Laguna, perché era contornato dai cani, a cui la madre, Maria Antonia de Jesus, vedova con tre figlie a carico, l’aveva promessa e data, a soli quattordici anni d’età, affinché la ragazza potesse sfamarsi. Aninhas non voleva mentire allo straniero, al bel corsaro dai capelli biondi come il sole, da cui era fortemente attratta ( “Io dico Josè Garibaudi, ed è un nome che mi fa sognare una vita in paesi misteriosi, bellissimi, lontani. Viene da un paese chiamato Italia, l’hai mai sentito nominare ?“, chiede alla sorella). Anita non disse che era sposata perché si sentiva una donna libera, e non tanto perché il suo matrimonio era stato uno sfacelo, e il marito, arruolatosi con gli imperialisti di don Pedro II, all’arrivo dei farrapos, i rivoluzionari a cui apparteneva Garibaldi, se ne era scappato da Laguna senza più dare notizie di sé ( poteva già essere morto, come ipotizza qualche biografo), ma perché Manoel dei cani si era rivelato fin dall’inizio un vero e proprio “omme ‘e merda”, per dirla alla napoletana. La maltrattava e la teneva segregata in casa, era costantemente ubriaco, e quando era sobrio era un vero pusillanime, sempre dalla parte del più forte, meschino, vile e codardo. Insomma non degno di lei, non dico del suo amore, – che non c’era mai stato – ma della sua stima e del suo rispetto. E questo per una sorta di codice d’onore non scritto delle donne sudamericane do quel tempo, che erano forti e coraggiose, e spesso si dovevano difendere da sole dalla brutalità degli uomini e dalla natura esuberante, ma allo stesso tempo erano donne capaci di estrema fedeltà e dedizione, pronte a qualsiasi sacrificio e alla totale sottomissione ai loro uomini, che seguivano anche nelle imprese guerresche, purchè questi si dimostrassero uomini veri, con le palle, dotati di coraggio, cuore, lealtà, con vivo senso della libertà, dell’ amicizia, spirito di sacrificio e solidarietà umana, valori che valevano più di qualsiasi legge scritta, e che Anita aveva trovato nel suo Josè. Una come lei, fiera e selvaggia come una cavalla di purissima razza, non si sarebbe mai adattata a vivere con un uomo che non amava e stimava, anche se le carte dicevano che era il marito. A dirla tutta, c’è chi, come Silvia Alberti de Mazzeri, una delle sue tante biografe, sostiene che il matrimonio tra Anita e Duarte non fu neppure consumato, ma forse questo è eccessivo.

Quel che è certo e che tra i due l’amore non c’era mai stato, e che quando venne Josè Garibaudi, come lo pronunciava lei, la diciottenne Anita non esitò a lasciare tutto e tutti, familiari e amici, casa e patria, e a seguirlo dovunque, come un’ombra, stargli accanto per tutta la sua breve vita, dieci anni intensi, pieni di avvenimenti, di speranze, di promesse, ma anche anni di durissime privazioni, fortemente drammatici, che solo una donna come lei avrebbe potuto sopportare.

(continua…)


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